Calcio, Resistenza e sangue

Il Napoli 1950-51. Bacchetti è il secondo in piedi da sinistra
Antonio Bacchetti, il cammello di Codroipo
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23 marzo 1945
Siamo a Porpetto, piccolo comune a una trentina di chilometri a sud di Udine. Su ordine del Comitato di Liberazione Nazionale di Pradamano, un gruppo di partigiani ha prelevato un fascista per condurlo presso Livio Nonino, comandante della Divisione Garibaldi “Natisone”, e sottoporlo a processo. Il fascista risponde al nome di Antonio Comuzzi, ha 38 anni ed è un ex sergente pilota che ha aderito alla Repubblica di Salò.
Comuzzi, che lavora presso l’UPSEA (Uffici pubblici statistici di economia agricola), è una sorta di ispettore agricolo, odiato dai contadini della zona e ostacolo alle operazioni di approvvigionamento da parte delle formazioni resistenti.
I gappisti sono quattro: i fratelli Antonio e Germano Bacchetti, Mauro Maiero, Glauco Orselli. Antonio, detto Toni, è il responsabile dell’azione. Toni ha appena compiuto ventidue anni, è stato garzone di bottega e pasticcere e da qualche anno sta cercando di fare della sua passione un mestiere: il calciatore professionista. Nato a Codroipo da una famiglia operaia, è cresciuto in una società calcistica di Udine ed ha già fatto esperienza in serie C, giocando nel Potenza nel 1940-41 e nel Savoia (la squadra di Torre Annunziata) nel campionato successivo, prima di ritornare a casa, aggregandosi alla Cormonese.
L’operazione però si complica: i partigiani vengono raggiunti da una staffetta che li avverte di un rastrellamento dei nazifascisti nella zona e che il comandante Nonino e i suoi uomini sono stati costretti ad allontanarsi dal luogo dell’appuntamento.
I gappisti si consultano rapidamente, non hanno previsto un piano alternativo: tornare sui propri passi con un prigioniero è troppo pericoloso, cercare un posto dove tenerlo in custodia ancora di più.
Non resta che una soluzione. Se ne occupa uno dei quattro: due colpi di pistola alla nuca e Comussi viene giustiziato. I quattro partigiani rientrano alle loro basi. Ma le cose non finiscono qui. Per questo episodio, oltre sei anni dopo, nel dicembre del 1951, Antonio Bacchetti, i suoi tre compagni e il comandante Nonino andranno sotto processo.
Nel frattempo Toni è diventato un affermato calciatore professionista che ha già disputato sei campionati di serie A, con Atalanta, Lucchese, Inter, Napoli e uno di serie B con il Brescia.
26 novembre 1950
Stadio del Vomero di Napoli (ufficialmente, quando si dicono le coincidenze, “Stadio della Liberazione”), dodicesima giornata di andata, si incontrano il Napoli, neopromosso in serie A e la Sampdoria. Finisce quattro a zero. Antonio Bacchetti, soprannominato “o’ cammello” per il suo curioso incedere alzando ed abbassando il capo, segna una doppietta, entrando nel cuore della tifoseria partenopea.
La figurina di Antonio Bacchetti con la maglia del Napoli
La popolarità di Bacchetti è certificata dalla nascita di una leggenda metropolitana, relativa a Napoli milionaria, il film di Eduardo De Filippo tratto dall’omonima commedia, girato proprio nel 1950: Totò e De Filippo stanno compilando la schedina del totocalcio e De Filippo chiede “Napoli-Inter che mettiamo?”. Totò risponde “Bacchetti gioca?” alla risposta affermativa, Totò dichiara perentorio “Allora metti uno!”. In realtà questa battuta non è mai stata pronunciata, anche perché all’epoca Bacchetti non aveva ancora avuto modo di mettersi in luce, ma in seguito la sua popolarità divenne tale da giustificare la nascita di questa falsa credenza proprio in relazione a uno dei film legati a doppio filo a Napoli.
Totò e Eduardo De Filippo in una scena di "Napoli milionaria"
Bacchetti gioca nel ruolo di mezzala sinistra, è dotato di buoni mezzi fisici (l’altezza supera il metro e ottanta, misura notevole per l’epoca) e viene descritto come giocatore molto tecnico e talentuoso, ma altrettanto apatico e poco propenso alla vita dell’atleta, a cominciare dalle sigarette. Già a Bergamo, dove gioca alle spalle di un Peppino Meazza a fine carriera, gli allenamenti saltati non erano infrequenti. Un classico caso di genio e sregolatezza, in campo e fuori.
Con il ritorno del monarchico Achille Lauro alla presidenza del Napoli, dopo la morte di Egidio Musolino, l’aria per Bacchetti si fa pesante, considerando anche il passato politico del suo allenatore, il piemontese Eraldo Monzeglio, vincitore da giocatore di due coppe del mondo, iscritto al PNF, amico dei figli di Benito Mussolini e insegnante di tennis del Duce, che seguì a Salò. Ed infatti nel campionato successivo Bacchetti collezionerà soltanto quattro presenze, senza segnare.
Achille Lauro con alcuni calciatori del suo Napoli (cr. Guido di Domenico Wikimedia commons)
Dopo l’esperienza a Napoli giocò nell’Udinese, nel Torino, nel Crotone e infine, ormai tornato nei prati di casa, nella Cividalese, in quarta serie, dove chiuse definitivamente la carriera nel 1957.
Quando nell’agosto del 1953 era in ritiro con il Torino, Toni venne eletto nel direttivo della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, organismo unitario che comprendeva la gioventù comunista e socialista a livello mondiale, su proposta di Enrico Berlinguer, che la presiedeva dal 1949.
Nel frattempo, la Corte di Assise del Tribunale di Udine, nel dicembre del 1951, aveva stabilito il non luogo a procedere per i partigiani coinvolti nella soppressione di Antonio Comuzzi, accogliendo la richiesta del Pubblico Ministero di applicazione del Decreto presidenziale 22 giugno 1946 (la cosiddetta amnistia Togliatti), riconoscendo il movente politico.
Le parole di Bacchetti nel corso della deposizione, definita dalle cronache del tempo “vivace” e “un po’ troppo spicciativa”, rendono bene l’amarezza dell’uomo: “Abbiamo combattuto in montagna con il cuore ed ora eccoci qua trattati come malviventi”.
Terminata la carriera agonistica, Toni rientra ad Udine dove vive la madre.
La famiglia non naviga nell’oro. I guadagni di un buon calciatore professionista negli anni Cinquanta non raggiungono – proporzionalmente – nemmeno un centesimo degli ingaggi attuali. In più Bacchetti non ha mai dato prova di grande oculatezza nella gestione del denaro, come dimostrano le frequenti visite al Casinò di Venezia e le partite di ramino nel retrobottega di qualche bar udinese.
La passione per il football è però ancora fortissima, e così Toni si dedica anima e cuore ai giovani calciatori, fondando nel 1963 una società, la “Esperia”, che arriverà a laurearsi campione d’Italia giovani, sconfiggendo l’Inter in finale, e dedicandosi all’attività di talent scout. Ma l’occuparsi della società, per quanto piccola, diventa troppo impegnativo, sotto il profilo gestionale ed economico. Così Bacchetti nel 1971 scioglie l’Esperia e cede i sessanta giocatori tesserati al “Ricreatorio Porzio”.
18 maggio 1974
Ore 9.10, via Leopardi a Udine. Nel retro del negozio di articoli sportivi di Armando Lorenzutti, 36 anni, presidente di una società calcistica giovanile, avviene una breve e animata discussione tra il titolare ed un uomo, che estrae una pistola e lo colpisce due volte, all’addome e al collo, uccidendolo sul colpo.
A sparare, attendendo impassibile l’arrivo della polizia, è stato Antonio Bacchetti.
Le ragioni dell’omicidio, che costeranno a Bacchetti una condanna a dieci anni e venti giorni di reclusione, con la diminuente del vizio parziale di mente, sono legate alla gestione dei cartellini di giovani calciatori ceduti dalla Esperia al Ricreatorio Porzio. Ma non è un problema di denaro, sostengono Bacchetti e la sua difesa, è un problema di etica professionale, legato al trattamento riservato da Lorenzutti ai ragazzi precedentemente sotto l‘ala protettiva di Toni.
La cronaca del delitto in un giornale del 1974
L’uomo che Lamberto Artioli, giornalista del Corriere della sera, incontra il 20 giugno del 1975 nel carcere di Udine, è descritto come una larva, minato da una grave malattia polmonare e profondamente segnato sotto il profilo psichico.
Così Toni si sfoga nel corso dell’intervista: “Avevo insegnato [ai miei giovani calciatori] che nella vita la cosa più importante è l’onestà, qualità questa che dovrebbe portare a esigere in cambio la lealtà degli altri. Invece essi non trovarono le lealtà sperate. Anzi, non vennero neppure trattati come uomini. Se sono arrivato a essere così disperato è perché non ne potevo più”.
Le dichiarazioni di Bacchetti portarono la stampa sportiva e la magistratura ad approfondire la “tratta dei giovani calciatori” e il sottobosco del calcio minore, senza però raggiungere risultati significativi.
Antonio Toni Bacchetti muore all’ospedale di Udine il 9 maggio del 1979.
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