I silenzi rossi: gli eccidi del maggio 1945

I silenzi rossi: gli eccidi del maggio 1945

I fratelli Govoni, uccisi nel maggio del 1945 (cr. Wikimedia commons)

I Govoni e il sangue fra Argelato, Pieve di Cento e San Pietro in Casale

Il 25 aprile l'Italia festeggia gli 80 anni dalla Liberazione. iosonospartaco affronta l'evento proponendo una serie di servizi in ambito storico e culturale

Proviamo a partire dalla fine di una storia su cui i fatti certi riguardano i morti ammazzati e i loro assassini, ma poco altro. La fine – per ora – è segnata da uno dei non memorabili volumi scritti da Bruno Vespa, Vincitori e Vinti, edito nel 2005, di cui con qualche ragione Sergio Luzzato diceva che sarebbe stato “inscaffalato” e presto dimenticato; siamo però anche nella stagione del Sangue dei Vinti di Gianpaolo Pansa, e quindi prima dell’oblio previsto da Luzzato, si torna a parlare in pubblico dei sette fratelli Govoni, anche se assai di malavoglia fra gli storici e con notevoli imbarazzi nella sinistra politica. Non trovando alcuna giustificazione per il massacro di sette fratelli (e diversi altri civili) a guerra finita, che fare? La risposta è a suo modo un classico: inventare. E ancora meglio se a inventare è una esponente di spicco dell’ANPI che sul periodico Patria, così chiosava: “…ah i poveri innocenti fratelli Govoni, che pure qualche colpa la dovevano avere, se due di loro sono ritenuti i carnefici di Irma Bandiera a Bologna...”.

Non esiste non solo una prova, ma nemmeno un sospetto di questa possibilità, anzi prima di quel momento, nessuno negli ambienti antifascisti bolognesi si era sognato di scrivere una sola riga in cui fossero citati assieme “Irma Bandiera” e “Fratelli Govoni”. Insomma è semplicemente una calunnia, la quale, a quel punto resta, si riproduce, si moltiplica: due dei sette fratelli ammazzati dai partigiani a guerra finita erano iscritti al PFR e quindi appartenenti ipso facto alla brigata nera di Bologna, e con un salto logico erano torturatori; di più: erano i torturatori di Irma Bandiera, medaglia d’oro della Resistenza. Fatti salvi i familiari, ormai sempre più soli e anziani, nessuno si è preso più lo scrupolo di correggere, precisare, protestare.

E il punto è esattamente questo, dopo ottanta anni: sui fratelli Govoni la memoria ufficiale prima ha taciuto, poi ha dovuto confermare, poi ha corretto la conferma, poi ha lanciato fango e infine ha fatto in modo che il tempo facesse il suo corso. La memoria alternativa, come altrove in Italia, è rimasta patrimonio di studi datati, ideologicamente connotati, spesso opachi, difficilmente opera di storici di professione e usati come strumento politico delle destre per mezzo secolo. La memorialistica locale si è occupata tardivamente e poco diligentemente di questo tema, con spunti d’interesse ma con la quasi totale assenza di inquadramento generale dell’argomento. Infine la famiglia, che è rimasta depositaria di un ricordo doloroso, cristallizzato e tramandato in modo sempre più labile, perché la generazione che vide e che fu ferita da quei fatti, ormai è scomparsa.

I fatti in realtà sono drammaticamente semplici, e sono comunemente definiti “eccidi di Argelato”, in quanto furono una sequenza di varie uccisioni arbitrarie avvenute a guerra finita. Gli autori degli omicidi erano i vertici della brigata “Paolo”, formazione nata per riunire una serie di distaccamenti di pianura delle formazioni garibaldine bolognesi, fino ad allora indipendenti, e che tali rimarranno sostanzialmente fino alla liberazione. Questa parte della provincia di Bologna è segnata da diversi episodi di sangue, anche se meno sistematici di quelli avvenuti nell’Appennino; uno è particolarmente cruento, proprio ad Argelato, dove il 9 agosto 1944 a seguito di un attentato alla casa del fascio vengono fucilate otto persone e date alle fiamme alcune case. Nelle immediate vicinanze, a Funo, il 10 ottobre 1944 sono fucilati altri quattro partigiani. Durante le fasi finali della ritirata tedesca, a San Pietro in Casale muoiono in scontri e rappresaglie tedesche un’altra decina fra civili e partigiani. Detto questo, spiegare i fatti successivi con la logica della sovrapposizione fra stragi nazifasciste e rappresaglie successive al 25 aprile (che tanto spesso ha sorretto le indagini della storiografia antifascista) appare parziale e insufficiente.


Il funerale dei fratelli Govoni, nel 1951 (cr. Wikimedia commons)

L’8 maggio 1945 elementi della brigata “Paolo” sequestrano e uccidono la famiglia del podestà di San Pietro in Casale assieme a nove cittadini di Cento, in provincia di Ferrara, città che è transitata indenne dagli eccessi della guerra civile e come la confinante Pieve di Cento, priva di qualsiasi evidenza di lotta di liberazione.  Qui, il giorno 11, sempre elementi della brigata “Paolo” sequestrano i sette fratelli Govoni  e successivamente dieci cittadini di San Giorgio di Piano, fra cui un giovane militare dell’esercito di liberazione appena giunto a casa, e li uccidono con percosse e strangolamenti nei pressi di Argelato, seppellendo poi tutti i cadaveri in tre grandi fosse comuni. Le frettolose sepolture saranno scoperte solo nel 1951 dopo lunghe indagini dei Carabinieri, svolte in un clima di paura e omertà: i morti sono complessivamente ventinove, pochi iscritti al fascio repubblicano, diversi possidenti e qualche esponente del mondo cattolico. Vanno a giudizio nel 1953 Vittorio Caffeo, Vitaliano Bertuzzi, Adelmo Benni, Luigi Borghi, tutti ex partigiani comunisti della “Paolo”, a vario titolo individuati come autori materiali della strage; vengono condannati all’ergastolo, ma prima degli altri gradi di giudizio sfuggiranno alla pena riparando in Cecoslovacchia, senza più rientrare in Italia.

Questi i fatti, sui quali formulare i propri giudizi. La storia non condanna o non assolve nessuno. Sono gli storici a giudicare, ovviamente se hanno voglia di farlo; se poi giudicano, il minimo contrattuale sarebbe partire da quello che è accaduto. In teoria.

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