Montefiorino, la repubblica del coraggio

Montefiorino, la repubblica del coraggio

Truppe partigiane accanto alla Rocca di Castellarano, in provincia di Reggio Emilia (cr. Museo di Montefiorino)

Fascisti e nazisti tenuti in scacco dai partigiani

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Quando nell’estate del ’44, sette comuni dell’Appennino emiliano si liberarono dal giogo nazifascista, affiorarono nella notte buia dell’occupazione i bagliori di una nuova aurora.  Per alcune settimane, i semi dell’Italia repubblicana germogliarono tra le montagne di Reggio Emilia e Modena.

L’esperienza della Repubblica di Montefiorino non fu solo un capitolo nella storia della Resistenza italiana ma una convergenza di impulsi democratici che troveranno concretezza, pochi anni dopo, nella Costituzione.

Nel giugno del ‘44, attraverso un’imponente operazione politico militare, le formazioni partigiane presero possesso di un vasto territorio respingendo a valle i tedeschi e i loro collaboratori fascisti.  Per capire come si giunse alla conquista di un’isola di libertà, nel cuore dell’Italia occupata, è necessario fare un piccolo passo indietro.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 la Resistenza era tutt’altro che strutturata sull’Appennino emiliano. I primi uomini a prendere la via dei boschi furono soprattutto i giovani del luogo, preoccupati di eludere la chiamata alle armi del ricostituito esercito fascista. Questi gruppi di giovani si muovevano di notte, tra casolari abbandonati, sovente aiutati dai parroci locali.

Movimento di truppe partigiane (cr. Museo di Montefiorino)

Ma nell’inverno del ‘44 iniziarono a salire in montagna nuove forze: antifascisti che da anni combattevano contro il regime di Mussolini. Si trattava di soggetti politicamente attivi, con un’idea più articolata di cosa fosse la guerra di resistenza.

L’arrivo di partigiani esperti mise inaspettatamente in difficoltà la Guardia Nazionale Repubblicana. I fascisti si sentirono accerchiati, impossibilitati a pattugliare il territorio e per riconquistare controllo e autorità chiesero una mano all’alleato tedesco. Nel marzo del 1944 i nazisti furono coinvolti in uno scontro a fuoco con i partigiani nei pressi di Monchio (odierno comune di Palagano) e un loro ufficiale perse la vita. La conseguente rappresaglia fu brutale e devastante. Il 18 marzo i borghi di Susano, Costrignano e Monchio vennero dati alle fiamme e 136 civili innocenti persero la vita.

Truppe tedesche nella zona di Cervarolo (cr. Museo di Montefiorino)

Pochi giorni dopo un’altra strage si consumò nel Reggiano: l’eccidio di Cervarolo. I fascisti parteciparono ad entrambi i massacri, ostentando sugli organi di stampa la loro soddisfazione per la collaborazione assieme alle SS.

L’odio, la violenza e i massacri non fermarono il movimento di liberazione, ebbero l’effetto opposto. Nella primavera del ’44 le azioni partigiane riacquistarono vigore in Appennino ed attirarono l’attenzione del Comitato di Liberazione Nazionale.  I primi a capire come il teatro montanaro potesse essere cruciale per la guerra contro i nazifascisti furono i comunisti. I comunisti venivano da anni di lotta clandestina, vantavano una profonda esperienza in sabotaggi e imboscate in città e potevano contare su una fitta rete di informatori. Fu proprio un partigiano comunista, Mario Ricci, nome di battaglia Armando, a cercare di unire le sparute formazioni attive tra Modena e Reggio.  Naturalmente non tutti i resistenti erano comunisti, c’erano partigiani cattolici, azionisti e addirittura dei preti. Alcuni gruppi erano invece quasi totalmente apolitici e ruotavano attorno a figure carismatiche, come gli ex ufficiali Mario Nardi o Marcello Catellani.

Un'azione di guerriglia partigiana (cr. Museo di Montefiorino)

Nel maggio del 1944 le operazioni dei partigiani si intensificarono.  Il numero di combattenti era salito a circa 500, comandati da Ricci assieme al commissario politico Osvaldo Poppi, nome di battaglia Davide.  

A inizio giugno Ligonchio fu liberata, poi toccò a Toano e infine anche il presidio fascista di Villa Minozzo dovette fuggire in tutta fretta. Nella notte tra 17 e 18 giugno 1944 i resistenti presero possesso della rocca di Montefiorino e in soli dieci giorni consolidarono l’area della zona libera che, oltre ai comuni reggiani menzionati, comprendeva anche Prignano, Polinago e Frassinoro.  In un clima di euforia collettiva centinaia di ragazzi arrivarono in massa dalle valli limitrofe e dalla pianura. Roma era stata liberata, gli Alleati erano sbarcati in Normandia e si pensava che la guerra stesse finendo.

Il battaglione russo sull'Appennino (cr. Museo di Montefiorino)

L’area in mano ai partigiani non aveva confini precisi, stretta tra due statali (la 63 e la 12, snodi cruciali per i rifornimenti tedeschi verso il fronte toscano), vantava un ospedale (Fontanaluccia), un campo di addestramento per le reclute (Gazzano) e due comandi. Uno tra le mura della rocca di Montefiorino (il Corpo d’Armata Centro Emilia) e l’altro a Villa Minozzo per gestire il versante reggiano.

Nei 45 giorni della zona libera ci furono decine di problemi da affrontare: approvvigionamento di cibo e armi, attriti politici tra le formazioni, difficoltà di comunicazione, poca pianificazione.  Studiando quelle settimane emergono tuttavia almeno un paio di elementi che tracciano peculiarità uniche dell’esperienza partigiana di quel periodo.

Partigiani con il pugno chiuso (cr. Museo di Montefiorino)

La prima fu l’elezione di rappresentanti locali nei consigli comunali dei sette comuni liberati. Si tratta di un passaggio significativo, soprattutto se si tiene in considerazione l’assoluta mancanza di familiarità con i processi democratici tra la cittadinanza. È necessario precisare che non si trattò di un sistema elettivo paragonabile a quello del 2 giugno 1946. I capi partigiani, soprattutto nel toanese, supervisionavano le scelte con i loro commissari politici, ma a Montefiorino avvenne qualcosa di autenticamente proto-democratico. Il 21 giugno 1944 venne scelto il Sindaco Teofilo Fontana (per acclamazione) e poi furono eletti i consiglieri delle frazioni. Una circolare del Comitato di Liberazione Nazionale invitava i parroci a mobilitare i propri parrocchiani e prepararli al voto. Anche in quel caso non fu un processo a suffragio universale, con votazioni segrete, ma assemblee aperte in cui si esprimevano i capifamiglia.

Le sedute dei consiglieri comunali, seppur per poche settimane, funzionavano secondo principi democratici: le fazioni cattoliche e comuniste discutevano ma poi riuscivano a trovare una sintesi sulle decisioni da prendere. Certo si trattava di provvedimenti logistici o amministrativi, la politica era in mano ai commissari e questo spesso suscitava malumori con le formazioni partigiane non apertamente comuniste.

Un secondo punto significativo dell’esperienza della zona libera fu il coinvolgimento delle donne nella lotta, principalmente reclutate come staffette, un lavoro rischioso ma vitale. La scarsità di linee telefoniche e la necessità di trasportare i messaggi fuori dai confini, nei comuni ancora occupati dai nazisti, faceva delle staffette un elemento essenziale della resistenza. Ma a Montefiorino ci furono anche donne inquadrate in ruoli di comando. È il caso di Norma Barbolini, sorella di Giuseppe Barbolini. Quando il fratello rimase ferito fu lei a prendere il comando di una intera divisione e a dirigere le operazioni negli scontri contro i tedeschi.

Nel luglio del ’44, nella zona libera, la partecipazione femminile era talmente rilevante che si pensò di creare un reparto composto da sole donne.

Un altro fenomeno interessante fu l’ascesa, tra i capi partigiani, di persone provenienti da classi sociali modeste. Al comando delle divisioni si erano fatti largo personaggi carismatici che prima lavoravano come operai, contadini o braccianti, ma che ora ricoprivano importanti responsabilità militari e politiche, una condizione impensabile sotto il fascismo.


Partigiani Stelle Rosse (cr. Museo di Montefiorino)

L’esperienza della zona libera fu spezzata da una vasta operazione di rastrellamento tedesco sul finire del luglio del ‘44. Con il fronte che si spostava verso nord, la presenza dei partigiani sugli appennini era diventata una grossa minaccia ai rifornimenti nazisti. La Repubblica era diventata un problema per gli ufficiali tedeschi.  Per tre giorni, tra le vallate di Reggio e Modena, risuonarono colpi di cannoni e scoppi di fucili. Fu la più grande battaglia campale tra forze partigiane e Wehrmacht in Italia. Malgrado la sproporzione delle forze in campo i partigiani organizzarono una solida difesa che non permise ai tedeschi di sfondare in poche ore. Ma già il primo agosto i resistenti dovettero arrendersi e lasciare le terre che avevano liberato un mese prima. I nazisti bruciarono decine di borghi e deportarono centinaia di uomini in Germania verso i campi di lavoro.

La fine della Repubblica di Montefiorino fu un colpo durissimo per il movimento di resistenza. Eppure le formazioni trovarono la forza per riorganizzarsi e continuare la lotta tra il ‘44 e il ‘45.  

Le vicende della zona libera appartengono all’eredità storica del nostro continente. Per più di un anno la montagna reggiana e modenese fu protagonista della storia d’Europa, una sottile linea passava tra i borghi e i cortili delle case: un confine tangibile che divideva due concezioni di futuro e di Europa.

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