La fantasia al servizio della memoria

Il pannello in omaggio al centenario della nascita di Calvino allestito alla fiera del libro di Buenos Aires (cr. madamebiblio Wikimedia commons)
La lezione di Italo Calvino a 40 anni dalla morte
Nel settembre 1985, all'ospedale di Siena si spegne la mente affilatissima di Italo Calvino: sono già passati quasi quarant’anni.
Il 2025 ci impone un anniversario meno oleografico del solito. Approfittiamo del ricordo di Calvino per fare un ritorno semi-fantasmatico ad un tema che percorre in filigrana tutta la sua opera: quello della memoria, declinato come principio narrativo, esercizio etico e persino paradosso esistenziale.
«La memoria – o meglio l'esperienza, che è la memoria più la ferita che ti ha lasciato... appena ha dato forma a un'opera letteraria insecchisce, si distrugge», scrive Calvino nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno, confessando il dolore di aver “consumato” nella scrittura le sue prime esperienze. E ancora: «Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo».
Calvino in bicicletta in Versilia nel 1970 (Wikimedia commons)
Parole malinconiche che già rivelano il nucleo del problema: fissare un ricordo nella pagina significa salvarlo dall’oblio, ma anche una sottrazione violenta della sua fluida, inafferrabile, viva essenza. È salvare un pesce tirandolo fuori dall’acqua.
Calvino ha passato tutta la vita a inseguire proprio questa dialettica infernale: come dare un ordine, una forma riconoscibile, al caos informe e pulsante del passato (personale, collettivo, storico, mitico) senza nel contempo perdere quella cosa sfuggente che è la sua anima. Nelle sue pagine, la memoria diventa struttura portante della fantasia: non c’è immaginazione del domani senza tracce di ieri.
La fantasia
Questo ponte tra passato e invenzione attraversa inevitabilmente il territorio minato del linguaggio ed è qui che sorge un conflitto fondamentale: ogni atto del ricordare implica, per Calvino, un raccontare. Ma raccontare è già tradimento. Una corrosione dell’evento puro: fissare le immagini nella rete delle parole finisce per farle svanire. Solo attraverso ripetizioni e segni convenzionali possiamo dare forma comunicabile a ciò che ricordiamo. La parola salva dall’oblio soffocando ciò che rendeva quel ricordo vivo, pulsante, irriducibile. È un salvataggio che somiglia a un’imbalsamazione.
Le copertine de "Il sentiero dei nidi di ragno" e "La strada di San Giovanni"
Lo vediamo bene ne La strada di San Giovanni (scritto nel 1962), racconto autobiografico in cui l’autore cerca di ricostruire le passeggiate giovanili col padre: ammette che la distanza di anni e l’incomunicabilità di allora possono essere colmate solo “inventando, abbozzando soluzioni che non corrispondono a verità”, consapevole che ogni tentativo di fedeltà è destinato a essere parziale.
In questo racconto, Calvino rievoca le albe in cui da ragazzo era costretto a seguire il padre per sentieri scoscesi fino all’orto: un’esperienza allora vissuta con silenziosa insofferenza, che nella rimemorazione adulta diventa terreno di riflessione. La memoria qui si presenta come un dovere etico verso i morti, un tentativo di comprensione postuma. Ecco il “ma” calviniano, sempre in agguato: quel silenzio originario oggi è diventato "incapacità di ricordare".
Calvino con Moravia nella biblioteca Einaudi di via Veneto a Roma, 1962 (cr. Touring club italiano Wikimedia commons)
Le sovrapposizioni emotive hanno deformato l’immagine paterna come uno specchio concavo. Risultato? Il narratore inventa. Riempie i vuoti con dettagli apocrifi. Ed è proprio questa memoria adulterata la più sincera: più che i fatti, testimonia la fatica titanica di ricostruirli. La verità sta nella distorsione stessa.
In Ricordo di una battaglia pubblicato il 25 aprile 1974, il partigiano Santiago alias Italo si arrende allo stesso paradosso: “Non è vero che non ricordo più niente, i ricordi sono ancora là, nascosti nel grigio gomitolo del cervello…”. Il problema non è l’assenza, ma l’eccesso: troppi granelli di sabbia neuronale da setacciare. Peggio: appena la luce della rievocazione sfiora quel gomitolo, ecco che “subito prende una luce sbagliata, di maniera”.
L’autocritica
Questa lucida autocritica sullo stile della memoria mostra Calvino in equilibrio sul filo sottile che separa la necessità di dire dal rischio di tradire. All’inizio del racconto si concentra su un dettaglio minimo (le calze logore del suo equipaggiamento) quasi per distrarre sé stesso dai “molti strappi nella memoria” di quella notte.
Calvino fotografato a Oslo nel 1961 (cr. Johan Brun Wikimedia commons)
Richiamando alla mente la scena, scopre con sorpresa che ricorda perfettamente l’elenco degli ordini preparatori (il piano d’attacco discusso a tavolino prima dell’azione) ma fatica a rievocare volti, voci, sensazioni dei compagni durante la battaglia reale. La sua memoria è una “rete bucata” che trattiene schemi astratti e lascia filtrare via la concretezza vissuta.
L’esercizio etico del ricordare (onorare i morti, capire il passato) costringe a un compromesso con l’invenzione. E Calvino lo accetta con riluttanza, consapevole che il tradimento onesto è forse l’unica via per avvicinare una verità sfuggente. Del resto, come ribadisce la chiusa stessa del racconto, dopo tante pagine “di quella mattina non ricordo più quasi niente” e resterebbero “ancora più pagine da scrivere” per dire ciò che sfugge: il giorno, la notte, la paura, l’incertezza fra vittoria e sconfitta.
Particolare del busto di Calvino realizzato dallo scultore Sergio Peraza Avila (Wikimedia commons)
Non c’è mai un punto finale nel lavoro della memoria; c’è sempre un resto indicibile. È in quel resto non scritto che risiede la vera ricchezza dell’esperienza, che nessun libro potrà mai restituire del tutto. Inseguendo i propri ricordi, Calvino ci insegna l’umiltà del narratore: “ogni versione è parziale, incompleta”, ammette, e il vero ricordo forse non si raggiungerà mai. Ma ciò non significa arrendersi. Al contrario, significa dare valore a quel percorso di continua ricerca, un percorso che è poi la vita stessa.
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