Mondiale 1950, la auto-iettatura

Mondiale 1950, la auto-iettatura

Il manifesto del campionato mondiale di calcio del 1950 (Wikimedia commons)

Il Brasile prima festeggiò poi perse

“Tutto era previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay”. Questa frase lapidaria, passata alla storia, l’ha pronunciata Jules Rimet, presidente della Fifa, ripensando al tardo pomeriggio del 16 luglio 1950, giorno della partita fra Brasile e Uruguay che avrebbe deciso la vittoria del mondiale nel 1950. Tutto era previsto, appunto, tranne che il Brasile perdesse.

Al Maracanà, non come appare oggi ma quello appena inaugurato da duecentomila persone, era stata allestita una parata da circo per festeggiare la vittoria, tanto che i giocatori del Brasile avevano già ricevuto in regalo un orologio con l’incisione “Campioni del mondo”. Invece fu una tragedia, passata alla storia come il “Maracanazo”, che costò la vita a molti brasiliani fra infarti e suicidi. Un caso di circostanze sfortunate coincidenti; ma anche, per chi ci crede, uno dei più clamorosi episodi di auto-iettatura.


La squadra del Brasile ai Mondiali del 1950 (cr. Arquivo nacional Wikimedia commons)

Surreale quello che accadde fra giugno e luglio di quell’anno quando, dopo dodici anni di vuoto per colpa della guerra, la Fifa decise che era venuto il momento di ripartire con i Mondiali di calcio. Dove giocarli? Certo non in Europa, che dopo la distruzione bellica aveva da pensare a costruire case e fabbriche e non stadi; e quindi non appena il Brasile si disse disponibile gli venne assegnata subito l’organizzazione.

Secondo problema: trovare le squadre disposte a partecipare. Le condizioni economiche non erano granché, piovevano più rinunce che richieste di adesione. Tolte di mezzo la Germania e il Giappone per le loro responsabilità nella guerra, venne invitata la loro alleata Italia, un po’ perché era la nazione detentrice (anche se il 1938 appariva lontanissimo) e un po’ anche come gesto di gratitudine, dal momento che a mettere in salvo la Coppa Rimet – che conteneva oro – pensò un italiano, Ottorino Barassi, che la nascose in Puglia da parenti i quali la conservarono immersa nell’olio d’oliva.  Alla fine le squadre furono tredici, un numero bassissimo e anche dispari che costrinse a inventarsi una formula astrusa senza nemmeno una finale, ma con un gironcino che consegnava il mondiale a quella con più punti. Insomma, un campionato in miniatura.


L'Uruguay che a sorpresa vinse il Mondiale del 1950 (Wikimedia commons)

Il mondiale delle assurdità. L’Inghilterra, comunque fra le favorite, venne rispedita a casa dagli Stati Uniti composti da dilettanti e non andò meglio all’Italia, arrivata in condizioni penose in Brasile a causa di un viaggio infinito in nave. Nessuno voleva salire in aereo dopo la tragedia di Superga dell’anno prima. I tentativi di allenamento sul ponte del bastimento si risolsero nella conta dei palloni finiti nell’oceano.

Il mondiale sembrava pensato come una formalità in attesa della cerimonia di premiazione con la consegna della Coppa Rimet al Brasile. I sudamericani in genere sono scaramantici ma quella volta ignorarono completamente le regole basilari della antichissima pratica e si comportarono come se avessero già vinto. La sorte addirittura preparò una finale anche se finale non era; doveva essere l’ultima giornata del girone conclusivo ma il Brasile era un punto avanti rispetto all’Uruguay, e il calendario voleva che fossero proprio loro due a chiudere il campionato.


Il Maracanà, che nel 1950 poteva contenere 200.000 spettatori (cr. Arquivo nacional Wikimedia commons)

Per il Brasile il cammino era stato tutto un trionfo, una valanga di gol all’attivo, pochissimi al passivo. Diversa la situazione dell’Uruguay, che aveva penato, lasciando per strada un punto importante nel pareggio con la Spagna. In teoria doveva essere una passeggiata, e infatti il Brasile – inteso come squadra ma anche come nazione – si preparava a una festa e non a una partita.

Mentre la politica locale già si sperticava negli elogi ai certi vincitori, le cose presero una piega diversa. Gli uruguaiani non erano né scarponi né sprovveduti e sfruttarono i pochi lati deboli del Brasile, che comunque passò in vantaggio in un Maracanà con i suoi duecentomila spettatori. Era quasi fatta. Quasi.


Il gol di Ghiggia che decise il Mondiale (Wikimedia commons)

Un po’ per senso di superiorità un po’ per incapacità tattica i brasiliani considerarono chiusa la vicenda mentre gli uruguaiani presero a dominare il gioco. Uno scambio con Ghiggia e Schiaffino (il centrocampista che chiuse la carriera nel Milan e nella Roma) si ritrovò davanti al portiere Barbosa e lo infilò. Niente di troppo grave, pensarono i brasiliani, perché il pareggio li avrebbe comunque premiati. Ma non era finita lì. A pochi minuti dalla fine Ghiggia ebbe l’intuizione di calciare in porta quando tutti si aspettavano un cross, Barbosa non era preparato e gli toccò raccattare il pallone sul fondo della rete.


Il portiere Barbosa, capro espiatorio della sconfitta (Wikimedia commons)

Fu la fine di tutto. Privo di idee e di forze, il Brasile venne preso in un vortice di paura mentre i pochi minuti passavano. Il fischio finale coincise con l’inizio della tragedia, fra gente presa da attacchi di cuore e altra che moriva buttandosi dalle tribune. Non si riuscì nemmeno a imbastire una premiazione, Jules Rimet nel bailamme generale mise la coppa nelle mani del capitano dell’Uruguay e se ne andò alla chetichella, anche per evitare guai peggiori.

Siccome ogni tragedia che si rispetti ha bisogno di un capro espiatorio, il Brasile lo trovò nel portiere Barbosa, il più facile da colpire, che ebbe l’unico torto di non compiere il miracolo di parare due tiri imparabili. Per tutta la vita, anche in vecchiaia, Barbosa fu perseguitato dall’accusa di avere causato la sconfitta in quel mondiale.


Peppino De Filippo fra il fratello Eduardo e la sorella Titina (Wikimedia commons)

Volendo dare credito alla superstizione e a quelli che ci credono, diciamo che il Brasile del 1950 fece tutto il possibile per cadere vittima di una auto-iettatura, riuscendoci benissimo. Festeggiò prima di vincere, celebrò senza vittoria. Forse in Brasile non avevano mai sentito parlare della commedia che Peppino de Filippo aveva scritto solo pochi anni prima: “Non è vero ma ci credo”. L’avessero letta non avrebbero commesso una serie di errori fatali. Forse, ovviamente.

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