Dalla stroncatura all'amicizia ritrovata

Dalla stroncatura all'amicizia ritrovata

Pasolini con Federico Fellini (cr. Wikimedia commons)

Pasolini, Fellini e la genesi di Accattone

Accattone, primo film scritto e realizzato da Pier Paolo Pasolini, doveva essere prodotto da Federico Fellini nel 1960. Invece uscì nelle sale l’anno successivo grazie al finanziamento – per 80 milioni di lire – di Alfredo Bini, che rimase il produttore di Pasolini fino all’Edipo Re.

La vicenda, raccontata dallo stesso Pasolini in due articoli usciti sul “Giorno” il 16 ottobre e il 6 novembre, poi confluiti nella sceneggiatura di Accattone, andò all’incirca così: Pasolini, dopo aver avuto l’ispirazione per il film, si recò da Fellini, che lo accolse «con un abbraccio». Poi però il Maestro suggerì a Pasolini di girare alcune scene di prova e mostrargliele. Furono tre giorni e tre notti di riprese febbrili, durante le quali, racconta Pasolini nei suoi articoli, «non ho dormito nemmeno per un’ora». Pasolini pensava incessantemente al film in lavorazione, si svegliava di soprassalto in preda a «piacevoli emorragie interne, in testa alla quale comparivano le inquadrature», vedeva scene che avrebbe girato il giorno successivo, passò addirittura un’intera notte «abbacinato dal sole del Ciriola sul Tevere, sotto Castel Sant’Angelo, con le facce di Alfredino e di Luciano che ridevano, strizzando gli occhi e le rughette intorno agli occhi, in quel loro riso malandrino che abolisce ogni regola della vita, in un’allegria storica e antica. Facce di peoni, di mozzi del Potemkin, di frati».

La difficile attesa

Finalmente le due scene furono pronte, e Pasolini le consegnò a Fellini. Era stato deciso che il Maestro avrebbe guardato “la pizza” insieme a Pasolini e agli attori, ma cambiò idea. Cominciò così un’attesa che lo stesso Pasolini definisce «smaniosa». Mentre attendeva il giudizio di Fellini, incapace di distrarsi con altro, «di fronte ai fogli privi di significato», Pasolini riceveva telefonate quotidiane da Franco Citti, che nel film interpretava proprio Accattone. Con lui c’erano il fratello Sergio, dizionario vivente di lessico romanesco, e tutti gli altri. L’ansia di Pasolini era esasperata dalla loro: «Non so come tranquillizzarli, come medicare la loro possibile delusione».


Franco Citti con Franca Pasut (fotogramma da Accattone)

La stroncatura di Fellini arrivò dieci giorni dopo, e solo perché Pasolini decise, stremato, di tendergli una specie di imboscata alla Federiz. «Il grande Mistificatore – racconta Pasolini nei suoi articoli – non sa nascondere, nell’occhio bistrato, che giungo inaspettato, e un po’ prematuro: ma mi accoglie abbracciandomi». I due si spostarono nell’ufficio di Fellini, e solo lì arrivò la sentenza: «Il materiale che ha visto, no, non l’ha convinto…».

Niente ripensamenti

E qui accadde un fatto a dir poco straordinario: Pasolini – il Pasolini al tempo condizionale, come lo definisce Walter Siti*, capace di gettarsi dalla poesia alla prosa, dal cinema al teatro e infine di sognare persino di scrivere musica, lui che la musica non l’aveva mai studiata – non indietreggiò. Né rinnegò quanto fatto. «In sostanza, cosa non piace a Fellini? La povertà, la sciatteria, la rozzezza, la goffa scolasticità quasi anonima con cui ho girato. […] Fellini si aspettava un miracolo, che non è avvenuto. […] Tuttavia, se dovessi rigirare la scena – una domanda precisa che mi ha posto – sì, la rigirerei con quel ritmo: rapido, affrettato, sciatto, buttato via, funzionale, senza coloriture e atmosfere. Tutto addosso ai personaggi. È così che vorrei girare l’intero film».


Un ritratto fotografico di Pasolini (cr. Wikimedia commons)

Eppure, Pasolini era disperato. “L’Espresso” titolò senza pietà: Bocciato in regia. La stroncatura di Fellini fu un colpo quasi mortale. Quasi, perché poi i due si riappacificarono. E lo fecero – come Orlando e Ferraù che, dopo lo scontro, trovano una tregua nell’attesa dell’alba – al ristorante. Racconta Pasolini, nel secondo degli articoli comparsi sul “Giorno”, che Fellini ordinava i cibi «con acribia di mago», in un locale da Dolce Vita. «Io – dice Pasolini – l’avrei abbracciato, con quei suoi occhioni calamarati, con quelle sue guancione avvilite». Era chiaro che avessero già deciso di perdonarsi a vicenda, e forse lo avevano anche in cuor loro già fatto, eppure «restava da consolidare e verificare il perdono» e solo la zuppetta di pinne di pescecane, il pollo con le mandorle, l’insalata di soia e bambù, il piatto di arancini e zenzero, e il delizioso tè di gelsomino «potevano in quel momento agire da riparo». Inforcando avidamente, tra una portata e l’altra, i due presero a sfogarsi contro chi, in quel periodo di lontananza, aveva tentato di metterli l’uno contro l’altro. Una chiacchierata senza fine, faticosa e poi sempre più agitata, con Fellini che si lamentava dei lati sgradevoli del successo e Pasolini angosciato dal “personaggio” che i cronisti stavano già facendo di lui, alterando la sua persona «con la piena coscienza del male».

Un legame forte

Ma nell’amarezza e nel disordine, quella cena sancì un legame ancora più forte tra i due. D’altra parte, scrive Pasolini, uno dei più grossi dispiaceri della sua adolescenza, «di quelli inconsolabili, da non potersene capacitare», fu passare avidamente dalla lettura de I tre moschettieri a quella di Vent’anni dopo, e scoprire «l’amicizia tra i moschettieri – quella pura, quella ideale, quella precostituita fantasticamente… – così alterata… dagli anni». Dopo vent’anni, infatti, Athos, Portos, Aramis e D’Artagnan erano sì ancora amici «ma divisi da qualcosa che – allora, da ragazzo – mi pareva orrendo: gli interessi dell’inserimento sociale, la diversità delle opinioni: divisi fino al tradimento, un tradimento sottile giocato con la vecchia amicizia. Qualcosa insomma che un giovane non può concepire».

Figurarsi Pasolini, «adulto, mai».

*"Tracce scritte di un'opera vivente" (1998) racchiuso in "Quindici Riprese. Cinquant'anni di studi su Pasolini", edito da Rizzoli nel 2022.

 

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