La miseria epica dei film di Pasolini

Pasolini con Enrique Irazaqui in una pausa de "Il Vangelo secondo Matteo" (Cred. Domenico Notarangelo Wikimedia commons)
“La realtà non attraverso simboli ma attraverso la realtà stessa”
«Accattone è il mio primo film. Quando l’ho cominciato non sapevo nulla; non sapevo che esistessero, per esempio, vari tipi di obiettivo, e restavo di stucco quando l’operatore mi chiedeva che obiettivo desiderassi».
Eccolo lì il Pasolini «adulto, mai», l’eterno ragazzo vorace di vita e di esperienze, sempre alla ricerca di un codice da rifondare. «Bisogna inventare nuove tecniche – diceva – che siano irriconoscibili, che non assomiglino a nessuna operazione precedente. Per evitare così la puerilità e il ridicolo. Costruirsi un mondo proprio, con cui non siano possibili confronti. Per cui non esistano precedenti misure di giudizio […]. Nessuno deve capire che l’autore non vale nulla, che è un essere anormale, inferiore – che come un verme si contorce per sopravvivere»¹.
Per Walter Siti – curatore dell’opera pasoliniana – la passione di rifondare nasconde l’imperfetta conoscenza di Pasolini, ma è anche una confessione di impotenza che diventa figura letteraria chiave per capire la sua poetica. Ogni testo pasoliniano abiura e corregge quello precedente.
Dopo essersi presentato al mondo come poeta partendo da una lingua inventata (la parola “rosada”, pronunciata in una mattinata di sole da Livio, non esiste nel dialetto friulano), Pasolini imbraccia dunque la macchina da presa e si dedica alla sua passione più pulsante: la vita. Quella vita rispetto a cui si sentirà sempre incapace, comunque inferiore («A volte faccio fatica a dare del tu a un cane»).
Anna Magnani in un fotogramma di "Mamma Roma"
Al cinema Pasolini arriva cercando la realtà: «Il cinema – dice – è un linguaggio non simbolico e non convenzionale, a differenza della lingua parlata o scritta, ed esprime la realtà non per mezzo di simboli ma attraverso la realtà stessa»².
Lui vuole la realtà, ma la realtà gli sfugge o meglio, esiste anche al di fuori di lui: «Una settimana fa ho sentito un uccello che cantava – erano i primi momenti della primavera – di lui non c’era altro che il suo canto – una goccia di canto – una margherita luccicante – che lo proteggeva come un’armatura di vetro, dietro la quale tutto era selvaggio, tutto era uccello, null’altro. Ebbene, io ho pensato che era inutile che io fossi ancora vivo, dato che lo scorso anno, udendo un uccello, avevo avuto l’identica impressione»³.
La passione per questa forma espressiva, comunque, lo porta a girare ventitré film (compresi corti e mediometraggi) in quattordici anni.
Dante Ferretti, che lavorò come scenografo con Pasolini per anni, ricorda: «Pasolini arrivava sul set con la sicurezza di chi si è già posto tutte le domande e ha già trovato le risposte. [...] Rifletteva rapidamente sul da farsi e prendeva subito una decisione. Non perdeva mai tempo, anzi sfruttava il tempo fino all’osso e aveva un’energia fisica fuori dal comune, per cui riusciva a lavorare a ritmi incessanti senza mai fermarsi. [...] Ricordo che era affascinato dai sopralluoghi: li faceva da solo o con pochissimi collaboratori al seguito. [...] Camminava, camminava, con quella resistenza incredibile che aveva, e guardava le linee, le forme dei paesaggi o degli interni con una tensione – una tensione da cacciatore – che non si esprimeva mai in parole».
Pasolini vuole scandalizzare
Nella sua intensa e incessante attività da cineasta – volta a trovare un’armonia tra invenzione e rielaborazione di forme pittoriche ispirate ai quadri dei grandi pittori del Duecento, Trecento e Quattrocento, scoperti alle lezioni di Roberto Longhi – ad affiorare è il mondo popolare, sono «le facce, i corpi, le strade, le piazze, i mucchi di baracche, i frammenti di palazzoni, le pareti nere dei grattacieli spaccati, il fango, le siepi, i prati delle periferie sparsi di mattoni e di immondizia» che per lui assumono un aspetto «assoluto e paradisiaco». Con il cinema, infatti, Pasolini vuole scandalizzare, stare il più lontano possibile dall’intrattenimento piccolo-borghese. «La miseria è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che si giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario sono sempre in un certo qual modo puri, perché privi di coscienza e quindi essenziali», spiega agli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma nel 1964.
Per Roberto Chiesi, «Pasolini scoprì nel cinema, nell’uso anche manuale, diretto, in prima persona, della macchina da presa, un’arte che gli consentiva di possedere senza filtri o intermediazioni il corpo del reale». E renderlo sacro.
Non è un caso che Pasolini parta dalla borgata romana (prima con Accattone, poi con Mamma Roma) e continui a celebrare il sottoproletariato con La ricotta (film che termina con la morte di Stracci, che interpreta il Cristo sulla croce, per indigestione dopo una vita di patimenti; film per cui Pasolini è stato condannato per il reato di vilipendio della religione). Per Pasolini «la conoscenza vera e la vera passione possono svolgersi solo in contrasto con il mondo borghese», perché la borghesia «è una classe sociale che corrisponde a una forma di vita, a un modello di comportamento e di pensiero assoluti, che non consentono confronti o vie d’uscita», spiega Marco Antonio Bazzocchi, professore ed esperto di Pasolini. «Io – spiega lo stesso Pasolini a proposito di Accattone – mi sono affacciato a guardare quello che succedeva dentro l’anima di un sottoproletario della periferia romana (insisto a dire che non si tratta di una eccezione ma di un caso tipico di almeno metà Italia): e vi ho riconosciuto tutti gli antichi mali e tutto l’antico, innocente bene della pura vita».
Totò sul set di "Uccellacci e uccellini" con il produttore Bini (Wikimedia commons)
Anche La rabbia e Comizi d’amore contengono atti di denuncia contro il mondo borghese: entrambi sotto forma di documentario, il primo interamente girato con materiale di repertorio; il secondo che, in tono divertito, mira alla dissacrazione dei tabù sessuali degli italiani. Nel ’68 Teorema propone allegoricamente l’esperienza del sesso e del sacrificio come unica via di fuga dalla società borghese. «Si tratta – spiega lo stesso Pasolini – dell’arrivo di un visitatore divino in una famiglia borghese. Tale visitazione butta all’aria tutto quello che i borghesi sapevano di se stessi; quell’ospite è venuto per distruggere. L’autenticità, per usare una vecchia parola, distrugge l’inautenticità. Quando egli se ne va, ognuno si ritrova con la coscienza della propria inautenticità e, in più, l’incapacità di essere autentico per l’impossibilità classista e storica di esserlo. Così ognuno dei membri di questa famiglia ha una crisi, e il film finisce più o meno con questa morale: qualunque cosa un borghese faccia, sbaglia».
Negli anni Settanta, Pasolini si rifiuta di filmare l’Italia contemporanea, che ha ceduto alla «massificazione» e al «genocidio» borghese, e rievoca il passato attingendo a Boccaccio, Chaucer e alla novellistica araba per Il Decameron, I racconti di Canterbury e il Fiore delle Mille e una notte, che costituiscono la Trilogia della vita. Contro l’omologazione e il consumismo del presente si scatena poi Salò, una sorta di sacra rappresentazione senza speranza, suddivisa in gironi infernali contemporanei.
Il re magio Eduardo
«Salò – spiega Roberto Chiesi – non avrebbe dovuto essere l’ultimo film di Pasolini e tanto meno il suo testamento. Per la primavera del 1976 aveva già previsto la lavorazione di Porno-Teo-Kolossal o Stella cometa. […] Un vecchio re magio (che doveva essere impersonato da Eduardo de Filippo), affiancato dal suo schiavetto Nunzio (Ninetto Davoli), avrebbe dovuto inseguire la stella cometa apparsa nel cielo di Napoli attraverso tre città dell’utopia: Sodoma (la Roma degli anni ’50), Gomorra (la Milano del 1976) e Parigi (assediata da un esercito tecnocratico fascista), fino ad approdare in Oriente, in un finale aperto e sospeso, sancito dalle parole: “Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualche cosa succederà”».
¹ Romanzi e racconti, vol. II, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori “i Meridiani”, 1998
² Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, 1992.
³ La poesia o la gioia, in Teatro, Mondadori “i Meridiani”, 2001.
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