Pasolini, l'intellettuale che imitò Gesù nel martirio

Pasolini, l'intellettuale che imitò Gesù nel martirio

Pasolini nel 1960 con i ragazzi di una borgata crediti Wikimedia commons

Elevato a mito dalla morte violenta

Cinquant’anni fa il poeta, scrittore e regista veniva assassinato. iosonospartaco ripercorrerà il suo ruolo nell’Italia del dopoguerra e del boom economico

È possibile parlare della vita e delle opere di uno scrittore partendo dalla sua morte? Nel caso di Pier Paolo Pasolini, sì. E non solo perché nel 2025 ricorrono i 50 anni dalla sua uccisione.

Gli anniversari – siano di nascita, morte o specifici di un’opera – sono spesso il pretesto per tornare a parlare di un autore, il “la” che dà il via all’intera sinfonia. Nel 2025 si celebrano i 40 anni dalla morte di Italo Calvino, i 650 anni dalla morte di Giovanni Boccaccio, i 760 anni dalla nascita di Dante Alighieri, i 240 anni dalla nascita di Alessandro Manzoni, i 190 anni dalla nascita di Giosuè Carducci, i 35 anni dalla morte di Leonardo Sciascia, i 40 anni dalla morte di Eduardo De Filippo, e i 25 anni dalla morte di Giorgio Bassani. Eppure, è certo, sarà l’anniversario di Pasolini – non solo per la cifra tonda, 50 – a fagocitare tutti gli altri.

Parlare di lui, a mezzo secolo da quei drammatici fatti di Ostia, non è un’operazione forzata. Perché, come egli stesso scrisse: «Finché siamo vivi, manchiamo di senso». È la morte a compiere «un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti) e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile […]. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci»¹.

Finché siamo vivi
manchiamo di senso

Quello che proveremo a fare, con questa che non vuole essere una rubrica su Pasolini ma uno spazio di riflessione in cui – si spera – poterlo conoscere meglio, è avventurarci nella sua poetica e nella sua vita. Due dimensioni che, nel suo caso, non potrebbero essere più intrecciate. Dal 1949, anno della denuncia per corruzione di minore, Pasolini – pur immerso e rispettato da quegli intellettuali, scrittori e poeti che lui stesso definiva «colleghi» – diventa il bersaglio della società, qualcuno su cui riversare rabbia. Ma il Pasolini dello scandalo, additato ed escluso, non solo accetta questa condizione: continua ad amare chi lo condanna. Nel farlo, si tramuta in perseguitato, si offre come vittima sacrificale: «Poi nelle mie fantasie apparve espressamente il desiderio di imitare Gesù nel suo sacrificio per gli altri uomini, di essere condannato e ucciso benché affatto innocente. Mi vidi appeso alla croce, inchiodato. […] Con le braccia aperte, con le mani e i piedi inchiodati, io ero perfettamente indifeso, perduto»².

E allora, partiamo dalla fine.

Nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini – poeta, scrittore, regista, sociologo, giornalista, saggista, drammaturgo e intellettuale – muore ammazzato in uno spiazzo sul litorale di Ostia. In un primo momento, si parla di una “punizione” inflitta dai magnaccia, ma questa tesi viene poi ampiamente contestata. Walter Siti, che ha dedicato cinquant’anni alla ricerca su Pasolini, sostiene che a ucciderlo sia stata la mafia siciliana, spaventata dal suo progetto di scrivere un libro (Petrolio) su Eugenio Cefis, all’epoca presidente dell’Eni e poi di Montedison: «Se qualcuno è arrivato a uccidere, vuol dire che aveva saputo del progetto pasoliniano e ne era spaventato: ha creduto davvero che uno dei più ascoltati intellettuali italiani, inesauribile innesco di polemiche, avrebbe scritto chiaro e tondo in un suo romanzo che l’assassinio di [Enrico] Mattei era stato voluto e organizzato da Cefis, con il supporto della mafia siciliana»³.

Pasolini fa discutere ancora, anche da morto. E il suo corpo straziato, ritrovato all’idroscalo di Ostia, diventa l’immagine ultima di un personaggio costruito a suon di versi, romanzi (anche incompiuti), interventi, film, sceneggiature, saggi e abiure. «Credo davvero che il personaggio più potente che la letteratura di Pasolini abbia mai creato sia Pasolini stesso»⁴, scrive ancora Siti.



Pasolini durante le riprese de "Il Vangelo secondo Matteo" Wikimedia commons

Già nel 1955 i giornali definiscono Pasolini «il divo della nostra letteratura», riferendosi a lui come a un “fenomeno”, come a un “caso”. La morte violenta lo eleva a “mito” («La poesia è una cosa rara, e hanno assassinato un poeta», urlerà al funerale Alberto Moravia). Ma attenzione: non è solo una questione di forma. Pasolini – ricorda Siti – «è esattamente il contrario di un esteta: non si riposa nella soddisfazione d’una vita “portata a livello dell’arte”, anzi umilia e tortura l’arte che non sa essere all’altezza della vita. Della sacralità della vita».

Senza volerlo – perché non si può certo pensare che Pasolini abbia scelto di morire così, in quel luogo e in quel modo – l’autore affida al suo corpo martoriato l’ultimo atto della sua opera. Le ferite e le lesioni subite – quel «braccio sanguinante scostato e l’altro nascosto dal corpo», i «capelli impastati di sangue che gli ricadevano sulla fronte escoriata e lacerata», le «dita della mano sinistra fratturate e tagliate», il «naso appiattito deviato verso destra», la «mascella sinistra fratturata», «l’orribile lacerazione tra il collo e la nuca», i «segni degli pneumatici della sua macchina sotto la quale era stato schiacciato», le dieci costole rotte, lo sterno fratturato, «il fegato lacerato in due» e «il cuore scoppiato»⁵ – finiscono per parlare più forte di tutto il resto, diventando estremo gesto dell’autore e occupando l’immaginario collettivo quasi più delle ventimila pagine scritte dal 1940 al 1975, in 35 anni «da ergastolano della propria vocazione», come Pasolini stesso si definì una volta.

Il corpo martoriato che lascia il segno
quanto le ventimila pagine scritte

Il corpo di Pier Paolo Pasolini viene scoperto la mattina del 2 novembre da una donna, Maria Teresa Lollobrigida, in un campo incolto lungo via dell’Idroscalo, sul litorale romano. Sarà Ninetto Davoli a riconoscerlo. Poche ore dopo il ritrovamento, i carabinieri fermano Giuseppe Pelosi, detto “Pino la rana”, sorpreso alla guida della Giulietta 2000 di Pasolini. Il giovane, interrogato, confessa l’omicidio. Racconta di aver cenato con Pasolini in un ristorante e di essersi recato con lui alla periferia di Ostia, dove il poeta avrebbe tentato un approccio sessuale. Vedendosi rifiutato, Pasolini avrebbe reagito con violenza, spingendo Pelosi a colpirlo con un bastone per difendersi.

Giuseppe Pelosi viene individuato come unico colpevole e condannato per l’omicidio. Tuttavia, già nelle settimane successive, emergono testimonianze che mettono in discussione questa versione. Nel 2005, durante un’intervista a Ombre sul giallo di Franca Leosini, lo stesso Pelosi ritratta la sua confessione, dichiarando di non essere l’esecutore materiale del delitto. Racconta che Pasolini sarebbe stato ucciso da tre uomini arrivati a bordo di un’auto targata Catania, parlanti con un accento che definisce “calabrese o siciliano”. I tre avrebbero aggredito Pasolini con una brutalità inaudita, urlandogli insulti omofobi come jarrusu (termine dispregiativo in dialetto siciliano).

Le rivelazioni alimentano l’ipotesi di una matrice politica dietro l’omicidio. Colpiscono, in questo senso, le parole pronunciate da Pasolini poche ore prima della sua morte, nell’ultima intervista concessa a Furio Colombo: «Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare, qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. È facile, è semplice, è la resistenza».

Ma morire per Petrolio è qualcosa di tragicamente beffardo. Intanto perché Pasolini è un autore che, come spesso ripetuto da Siti, tutti citano ma pochi hanno letto, e in secondo luogo perché nessuno avrebbe potuto sapere il destino di quel romanzo a cui stava lavorando. I pensieri sugli attentati di Stato e la necessità di un processo alla Democrazia Cristiana sono posteriori al novembre del 1974, come testimoniato dagli Scritti Corsari e dalle Lettere Luterane: «La denuncia della collusione tra ceto politico e servizi segreti deviati – scrive Siti nel saggio del 2022, Non doveva finire così – non era presente all’inizio e forse si sarebbe molto diluita nel finale, dove Pasolini insiste piuttosto sull’inutilità della Storia “che non spiega più niente” e sulla saggezza del “ridere di tutto”».

E ancora: «Io credo che le due tesi che finora si sono spartite l’interpretazione di Petrolio incarnino una vera incertezza che Pasolini non aveva risolto al momento della morte. Lui davvero non lo sapeva se il romanzo sarebbe stato un feroce atto d’accusa contro la Democrazia Cristiana e i Servizi segreti deviati o una testimonianza dell’impossibilità di conoscere la verità sul Potere, col risultato che alle coscienze e alle anime pure non resta che l’autoesilio e l’autoderisione; io credo che nella sua vita Pasolini non l’abbia deciso mai, se era Zola o Rimbaud»⁶.

Quel che è certo è che Pasolini è sepolto nel piccolo cimitero di Casarsa, nel suo amato Friuli. Sulla bara è appoggiata la maglia della Nazionale Italiana Spettacolo, la squadra di calcio che aveva contribuito a fondare. Accanto a lui riposa la madre Susanna Maria Colussi, figura centrale nella sua vita e anche – secondo diversi critici – presenza costante nella sua opera. Un profondo legame che emerge con struggente chiarezza nei versi della Supplica a mia madre, e che neppure la morte è riuscito a spezzare.

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

 

¹ P. P. Pasolini, Osservazioni sul piano-sequenza, in Empirismo Eretico, 1967

² P.P. Pasolini, Romanzi e racconti, vol. I, “i Meridiani”, 1998

³ W. Siti, Non doveva finire così, 2022

⁴ W. Siti, Introduzione a Tracce scritte di un’opera vivente, 1998, in Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, Rizzoli, 2022, p.19

⁵ Dalla Perizia compiuta sul cadavere di Pasolini, ne “Il Corriere della Sera”, 3 novembre 1975

⁶ W. Siti, Non doveva finire così, in Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, Rizzoli, 2022

 

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