"Ragazzi di vita", pietre dello scandalo

Pasolini gioca a calcio con i ragazzini di borgata, è il 1960 (Wikimedia commons)
Pasolini accusato di oltraggio al pudore
Cinquant’anni fa il poeta, scrittore e regista veniva assassinato. iosonospartaco ripercorrerà il suo ruolo nell’Italia del dopoguerra e del boom economico
“Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista”.
Così Pier Paolo Pasolini in una delle ultime interviste, prima del suo scandaloso assassinio. L’intera sua parabola umana e artistica fu costellata di censure e proscrizioni, fin da quando in Friuli venne accusato di corruzione di minorenni, cacciato dal Pci e costretto ad emigrare con la madre a Roma. Erano gli anni del dopoguerra e il giovane poeta viveva a Ponte Mammolo, quartiere all’estrema periferia, non lontano dal carcere di Rebibbia. E’ qui che s’innamorò dell’inguardabile e dell’indescrivibile, guadagnandosi il secondo dei suoi 33 processi.
Nel fango, tra il pietrisco polveroso, in mezzo alle macerie o nelle acque torbide del Tevere, tra canneti sporchi e sterrati luridi, alla fine di periferie pietrificate, su sassi ammonticchiati come dune in mezzo al nulla, dentro case scoperchiate, vivono e muoiono i suoi “Ragazzi di vita”: Riccetto, Alduccio, Lenzetta, Begalone, Genesio, il Caciotta e molti altri, protagonisti del romanzo d’esordio pubblicato da Garzanti nel ‘55.
La copertina della prima edizione di "Ragazzi di vita" edita da Garzanti (Wikimedia commons)
Autore ed editore finirono subito alla sbarra, accusati di oltraggio al pudore per gli espliciti riferimenti alla disponibilità sessuale dei personaggi. Verranno poi assolti grazie alle pubbliche prese di posizione di alcuni intellettuali del tempo, come Carlo Bo, Giuseppe Ungaretti, Moravia tra i testimoni della difesa. Ma lo scandalo, quello vero, che Pasolini portò a compimento e che la borghesia romana non poteva sopportare, fu quello di aver dato una voce ai reietti delle borgate, nate come bidonville, dalla volontà fascista di allontanare dal centro città il sottoproletariato, di porlo ai margini, segregarlo e abbandonarlo a sé stesso. In quella desolazione ostile Pasolini riuscirà invece a cogliere spicchi di poesia inaspettata e una vitalità primordiale che sembra fuoriuscire, come magma incandescente, dalle sue stesse viscere.
Scrittura da vertigini
Lo farà innanzitutto attraverso una scrittura incalzante, dal ritmo vertiginoso e febbrile, quella di chi non può far altro se non raccontare l’inenarrabile realtà dei luoghi e di chi in quel degrado consuma le sue giornate, senza punti di riferimento, senza padri, senza eroi e senza un lamento. La narrazione, strutturata su capitoli, si sostanzia in dialoghi serrati in dialetto romanesco dove l’io narrante se ne sta in disparte, ma come per empatia con i personaggi, parla in un italiano che si appropria di forme espressive gergali, testimoniando vicinanza e una comprensione profonda verso quelle creature che annaspano nella loro umanità selvaggia, restando integre, incontaminate rispetto al mondo borghese che sta dall’altra parte, separato e sordo.
Penna e macchina da presa
Pasolini non condanna e non giudica le avventure scellerate del gruppo, osserva il susseguirsi inarrestabile dei fatti, come se la sua penna fosse già una macchina da presa posizionata sull’affannarsi sbracato di chi s’inventa la vita, in bilico tra criminalità e delinquenza, in una quotidianità che fa un tutt’uno di quei volti giovani ma già induriti e le crepe delle case pericolanti, di quegli abiti cenciosi e la schiuma sporca del Tevere in cui i “regazzini” si gettano con incosciente allegria.
Questa corrispondenza univoca tra luoghi e individui produce una tensione narrativa costante che permea l’intero romanzo, assumendo talvolta i contorni del giallo, come quando nel quarto capitolo, Riccetto (sono le sue disavventure a legare i racconti gli uni agli altri) e il Caciotta, dopo aver sfilato il portafoglio a una vecchietta, incontrano Amerigo, “er mejo guappo di Pietralata”, uno più grande di loro, “con una faccia così cattiva che in qualsiasi parte del corpo uno lo toccava pareva che dovesse farsi male. Strascicava i passi come un bocchissiere un po’ groncio e invece, in quella camminata cascante si vedeva ch’era pronto e svelto peggio d’una bestia”.
La tensione sale cospargendo l’aria di tragedia fino a quando “la bestia” riuscirà a scucire tutti i soldi dalle saccocce del Riccetto per giocarseli e perderli all’istante nella bisca clandestina di Fileni, dove farà irruzione la polizia. Riccetto riuscirà a scappare, il Caciotta verrà arrestato e Amerigo pure, ma solo dopo una fuga rocambolesca nella quale resterà ferito. Deciderà di togliersi la vita una settimana dopo pur di non restare “al gabbio”. “E davanti al suo cadavere si sentivano i pianti delle donne. I maschi invece avevano incarnata nei lineamenti di giovinottelli imberbi o di vecchi paraguli una vaga espressione di divertimento. A Pietralata non c’era nessuno che provasse pietà per i vivi, figurarsi cosa c…provavano per i morti”.
Felicità senza desideri
La morte fa parte della vita, così come il sesso, vuoto e feroce, pulsione primordiale o merce di scambio. “Il Lenzetta e il Riccetto s’accostarono alla donna ch’era piccola e grossa come un rotolo di coppa, stettero un po’ a contrattare e passando tra i fili di ferro di un reticolato, si spinsero in dentro, tra mucchi fradici di canne. Non ci misero molto; appena che risortirono andarono calmi calmi a lavarsi un pochetto a una fontanella, in mezzo al piazzale dov’era il capolinea dei tranvai».
Un fotogramma da "Accattone", film ambientato fra le borgate degradate (cr. Angelo Pennoni Wikimedia commons)
I ragazzi si dirigono al centro di Roma, sospinti dal bisogno di soldi o di sesso, in un’altalena incessante fatta di piccoli furti e immediata perdita del denaro, tra furbizia e crudeltà, salvo poi mostrare la loro faccia ingenua e sprovveduta quando arriva qualcun altro più agguerrito di loro nella lotta per la vita. Vanno così, inconsapevoli, verso il loro destino di piccoli malviventi emarginati, è la loro felicità senza desideri.
E’ la verità pura delle borgate, quella che Pasolini ha attraversato calandosi all’inferno per poi risalire con gli occhi pieni di compassione per un mondo che in seguito non sarà più, definitivamente cancellato dal potere omologante della società dei consumi di massa. Siamo nella Roma degli anni ’50, dove nacquero le istituzioni repubblicane e poi il Paese che siamo diventati. A settant’anni esatti dalla sua pubblicazione i “Ragazzi di vita” hanno ancora molto da raccontare.
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