Attento a dove metti i piedi

Un tombino aperto a New Orleans (cr. Bart Everson Wikimedia commons)
I tombini ci parlano di arte e storia
“Porco il mondo che c’ho sotto i piedi” era il tormentone di Vito Catozzo, personaggio dell’indimenticabile Giorgio Faletti. Già, ma cosa abbiamo (spesso) sotto i nostri piedi?
Vi sembrerà strano, ma così come esistono appassionati di treni, di cartelli stradali o di lapidi commemorative, ci sono siti web, forum, pubblicazioni, collezionisti e finanche musei (ad esempio a Ferrara) dedicati a un oggetto onnipresente nel panorama urbano moderno: il tombino. In realtà questo sarebbe il nome del cunicolo artificiale sotterraneo, ma è ormai diventato il termine generico per indicarne la copertura. Ne calpestiamo decine ogni giorno, senza farci più caso e, a causa del progressivo aumento delle reti sotterranee, il loro numero è in crescita vertiginosa (se ne calcolano più di 20 milioni nella sola Shanghai).
Pavone sul tombino di un filtro per il percolato (cr. Sindugab Wikimedia commons)
La nascita delle città pose subito il problema della manutenzione e pulizia delle strade e dell’abitato, incanalando soprattutto le acque piovane e le sorgive non utilizzabili. Ne esistono testimonianze archeologiche nei primi centri urbani di ogni civiltà del passato. Roma aveva sicuramente il miglior sistema fognario (e acquedottistico) dell'antichità, rimasto insuperato fino alle grandi reti costruite a metà ottocento a Londra e Parigi. Le acque reflue urbane e quelle meteoriche venivano convogliate nel Tevere da canali sotterranei tramite pozzi di scolo, chiusi da appositi coperchi di pietra o marmo, forati e decorati spesso con immagini di divinità fluviali.
La bocca della verità a Roma (cr. cat's 101 Wikimedia commons)
La celebre Bocca della Verità in effetti all’origine era semplicemente questo: un tombino, anzi tecnicamente una caditoia, cioè quei manufatti ancora oggi fondamentali per evitare allagamenti, e la cui mancata pulizia periodica invece li provoca sempre più spesso. Per quasi venti secoli fu l’unico tipo di tombino presente nelle città, per il semplice motivo che l’unica rete sotterranea era quella fognaria (i canali medievali furono quasi tutti tombati e agli acquedotti si accedeva invece tramite gallerie). Griglie o grate inoltre servivano (e servono ancora) per l’aerazione e l’illuminazione delle cantine sotterranee.
Fu nella Londra del primo Ottocento, in piena rivoluzione industriale, che comparve qualcosa di nuovo: un pozzetto, situato di fronte alle abitazioni, in cui veniva scaricato il carbone necessario al riscaldamento (“coalhole”, letteralmente “buco per il carbone”), il tutto protetto da una lastra di ghisa. E questo coperchio è ciò che noi chiamiamo impropriamente tombino (e qui il termine tecnico sarebbe chiusino).
Tombino in una via di Lublin, Polonia (cr. BogTar20121 Wikimedia commons)
La ghisa garantisce un prodotto praticamente economico, quasi indistruttibile, ma all’occorrenza riutilizzabile per nuove fusioni. Ci sono in giro tombini ancora perfettamente integri dopo più di centocinquant’anni di onorato servizio. Questo manufatto, se si escludono nuove leghe e materiali, non ha avuto sostanzialmente alcuna evoluzione tecnologica di rilievo.
Con i nuovi grandi sistemi fognari urbani arrivò la necessità di pozzetti di ispezione (“manhole”, letteralmente “buco per l’uomo”, la lingua inglese è sempre stata molto pratica), che poi si estesero alle altre reti successive: gas, elettricità, telefono, fino ai giorni nostri con la fibra ottica.
Oggi sempre di più si tende ad interrare tutto, facendo scomparire quei grovigli di cavi aerei che una volta erano tipici del paesaggio urbano. Personalmente abito in un centro storico e se guardo dal portone d’ingresso, una decina di metri sia a destra sia a sinistra conto due caditoie, due pozzetti per la fibra ottica Fastweb e uno Telecom, tre dell’Enel, uno di ispezione per le fognature, e almeno cinque di quegli onnipresenti piccoli chiusini circolari del diametro di cinque-dieci centimetri che servono a chiudere le saracinesche di acqua o gas all’altezza di quasi ogni numero civico.
Tombino con i simboli fascisti in via Nomentana a Roma (cr. Lalupa Wikimedia commons)
La produzione passò rapidamente da artigianale ad industriale e molte piccole fonderie si specializzarono in questi manufatti. Avrebbero potuto essere semplici lastre anonime ma fin dall’inizio riportarono scritte di servizio, date di produzione, loghi delle aziende produttrici o di quelle che gestivano le reti. Se vi fermate un attimo ad esaminarli potrete ritrovare un riassunto di archeologia urbana, con i nomi di municipalizzate non più esistenti oppure simbologie politiche di altri tempi.
Copertura di un tombino a Tokyo dedicata alle Olimpiadi (cr. Pierre 5018 Wikimedia commons)
Sì, perché ci sono ancora in giro tombini con fasci littori o datati secondo l’era fascista. Ma c’è anche tutto un aspetto di design artistico legato a questi artefatti urbani. Non mancano tombini futuristi o art-nouveau fino agli splendidi tombini giapponesi, che dalla fine degli anni ’70 sono divenuti una celebre e coloratissima forma di street art, che ha fatto scuola in molte altre città. Quindi attenti a dove mettete i piedi, potreste calpestare un’opera d’arte.
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