Meno parole, più violenza

Particolare da "Ragazza che legge" di Johann George Meyer (esposto al Milwaukee art museum cr. Sailko Wikimedia commons)
I modelli negativi del linguaggio impoverito
Le parole sono lo specchio del pensiero. Non è una frase fatta ma un concetto che filosofi e sociolinguisti sostengono già dal secolo scorso. Più il nostro linguaggio si appiattisce, più cresce la probabilità di non riuscire a interpretare la complessità di ciò che accade.
Più il nostro dire si fa avaro di parole più la violenza verbale prende il posto del dialogo, dell’empatia, della capacità di esprimere idee e sentimenti. Negli ultimi 40 anni le ricerche hanno dimostrato che il quoziente intellettivo degli occidentali è in calo, anche a causa di un linguaggio sempre più povero e di un lessico che si assottiglia. E non è una buona notizia venire a sapere che su 145mila parole - presenti nell’ultima edizione del vocabolario Zingarelli - ne usiamo solo 7mila, cioè meno del 5% del totale.La prima edizione del vocabolario della Crusca, datata 1612 (Wikimedia commons)
Riavvolgere il nastro per capire come, quando e perché abbiamo iniziato a mettere nel cassetto l’impareggiabile tavolozza di vocaboli, sfumature, sottigliezze, metafore, verbi e coniugazioni di cui la nostra meravigliosa lingua dispone, non è facile, ma di sicuro l’avvento e soprattutto la pervasività dei social media è uno (non l’unico) dei principali imputati.
Parla McLuhan
“Il mezzo è il messaggio”, diceva Marshall McLuhan in tempi non sospetti e nessuno può smentire la sua celebre affermazione che appare, oggi più di ieri, come un’analisi perfetta del carattere assunto dai mezzi di comunicazione di massa, padroni indiscussi del nostro linguaggio. Sempre più povero, sciatto, abbreviato, mixato con neologismi, acronimi e anglicismi. Parole e frasi dettate dalla velocità della tastiera, quando non suggerite semmai dall’algoritmo o dall’intelligenza artificiale.Il sociologo della comunicazione Marshall McLuhan (cr. Bernard Gotfryd Wikimedia commons)
Tali caratteristiche del nostro modo di comunicare - anche una semplice telefonata è in via d’estinzione – vanno di pari passo con l’esercizio altrettanto superato della lettura. Secondo la rilevazione dell’Associazione italiana Editori il 30% dei lettori legge in modo frammentario, dedicandosi a questa attività solo qualche volta al mese se non qualche volta all’anno. Il tempo medio settimanale riservato alla lettura è stato nel 2024 di 2 ore e 47 minuti, un tempo inferiore di quello registrato l’anno precedente di 3 ore e 16 minuti (nel 2022 eravamo a 3 ore e 32 minuti).
Ragazza impegnata con il cellulare (cr. Jiyoung Kim Wikimedia commons)
Anno dopo anno, dunque, l’abitudine di prenderci una pausa per immergerci tra le pagine di un buon libro viene sacrificata sull’altare delle pagine di Facebook, Instagram, Youtube, X o Whatsapp. Evidentemente questa nuova modalità di interagire nell’ecosistema digitale non può essere senza conseguenze.
Come spiega in modo chiaro lo studio condotto dall’Università La Sapienza di Roma “Modelli di semplificazione linguistica sui social media” che analizza in modo sistematico oltre tre decenni di interazioni linguistiche sui social, grazie a un database di circa 300 milioni di commenti in inglese provenienti da otto piattaforme diverse. I dati indicano che cosa è successo: semplificazione linguistica, ridotta ricchezza lessicale, diminuzione delle parole uniche nel tempo e commenti di lunghezza sempre più breve.
Nuova grammatica
Nelle crepe riarse della desertificazione della parola emerge tuttavia il nascere di una nuova “grammatica” fatta di abbreviazioni, neologismi ed elementi multimediali quali hashtag ed emoji, ma anche gif e meme utilizzati al posto delle parole per esprimere un concetto, in obbedienza alla regola della velocità e del coinvolgimento emotivo, alla ricerca di frettolose conferme della propria identità di gruppo.
Questa evoluzione del linguaggio, però, non è un processo neutrale. È profondamente influenzata dai modelli economici delle piattaforme digitali, progettate per massimizzare l’attenzione degli utenti e favorire contenuti brevi e coinvolgenti, riducendo così la qualità del dibattito pubblico e privato e amplificando fenomeni di polarizzazione, disinformazione e perdita di diversità culturale.
Ma per fare un esempio concreto, questo testo che state leggendo non può scalare le classifiche dei motori di ricerca, non ne ha le caratteristiche, che secondo i parametri di “leggibilità” del decisore algoritmico sono: brevità del testo con frasi non più lunghe di un rigo, senza subordinate per carità, linguaggio piatto privo di metafore o figure retoriche. Questo tipo di testi, meglio se infarciti di qualche falsa notizia che faccia leva sull’emotività dell’individuo, sono più fruibili, fanno più click, più traffico e quindi più soldi. Funziona così il marketing delle parole, oggetto di mercificazione così come tutto il resto.Un salone dell'Accademia della Crusca (cr. Sailko Wikimedia commons)
Uno scenario poco entusiasmante che è sotto gli occhi di tutti e non solo l’Accademia della Crusca avrebbe ragione di lamentarsene, poiché si tratta di un fenomeno globale che ha a che fare con il potere e la democrazia, quest’ultima – come le parole - anch’essa in via d’estinzione, guarda caso. Non è un caso però che proprio i potenti della terra abbiano rinunciato a pronunciare discorsi complessi, così come al tentativo di interpretare e riempire di senso la realtà multiforme dell’oggi.
Parla Trump
Un campione in questo senso è certamente il presidente americano Donald Trump, la cui volgarità rispecchia in tutto e per tutto il modello comunicativo appena descritto. Il suo linguaggio - così lontano dal decoro e dalle convenzioni della politica tradizionale - funziona, ponendosi come vera e propria strategia. Perché nell’universo mediatico, più importante di un eloquio colto è la capacità di catturare l’attenzione.Il colloquio fra Trump e Zelensky (cr. White House rapid response Wikimedia commons)
In un mondo che ha smesso di distinguere tra il vero e il falso il presidente americano è riuscito a trasformare l’insulto, la provocazione, l’insensatezza in elementi chiave della sua leadership e del suo consenso. Ma se l’intelligenza artificiale per certi versi fa paura, Trump è la dimostrazione che – se incontrastata – anche quella umana può essere nefasta.
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