Giallo van Gogh

Giallo van Gogh

Il colore dei girasoli non era solo nei suoi occhi

               Perché Van Gogh usava tanto il giallo, e quel giallo?

               Uno scettico risponderebbe: perché gialli sono il sole, i girasoli, la paglia delle sedie, i campi di grano, la sabbia, i pagliai dove dormiva quando vagabondava per le campagne, e tutte le cose gialle che ha dipinto. E, all'obiezione che quei gialli, e tutti quei gialli, non si erano mai visti, avrebbe pronta la risposta: perché, nei secoli antecedenti, non esistevano sul mercato pigmenti gialli così splendenti, e solo alla fine dell’Ottocento son diventati disponibili, nei tubetti industriali, e nella misura sufficiente ad usarli in maniera così abbondante sulla tela, rendendo i dipinti così luminosi e materici.

               Sarà, ma il curioso non demorde.

               Con l'odioso e bugiardo alibi della scienza, si son date risposte che sfociano piuttosto nell'oscurità: perché Van Gogh beveva assenzio, che, sciolto nell'acqua, diventa giallo, ed è un liquore tossico, che provoca la xantopsia, cioè la visione gialla degli oggetti; perché inalava, per dormire, vapori di canfora, e ciò gli provocava allucinazioni; perché era epilettico, o schizofrenico, o soffriva di una rara malattia ereditaria, la porfiria acuta intermittente; perché, per curare l'epilessia, assumeva la digitale, un farmaco tossico. Quanto e tanto più la scienza pretende di spiegare, tanto meno convince, finendo in un semplicismo che non significa nulla.

               E, dunque, restano le domande: perché, dietro ai girasoli, anche il fondo è giallo? Perché son gialli i visi, i mattoni, le assi dei pavimenti in legno, le case di notte, la luna? Si era mai vista una luna gialla? Non è d'argento? Usavano davvero, allora, le giacche e i cappelli gialli? E perché tante cose gialle?

         Dalle lettere al fratello Theo

Proviamo allora a leggere le famose lettere a Theo: “Quello che uno ha dentro traspare anche al di fuori. Uno ha un grande fuoco nel suo cuore e nessuno viene mai a scaldarsi vicino, e i passanti non vedono che un poco di fumo in cima al camino, e poi se ne vanno per le loro strade!”.

               Ci si può chiedere: e se quel fuoco, cioè quel giallo, fosse il cuore di Vincent, cui nessuno si avvicinava... e dunque quel fuoco, quel giallo, lo ha buttato sulla tela, nella speranza di attirare i passanti distratti?

               Da quelle stesse lettere, Van Gogh si dimostra molto consapevole dei colori, delle relative teorie, dei loro significati “se l’estate è il contrasto degli azzurri con un tocco di arancione nel bronzo dorato del grano, si potrebbe dipingere un quadro che esprima lo spirito delle stagioni in ciascuno dei singoli contrasti di colori complementari (rosso e verde, azzurro e arancione, giallo e viola, bianco e nero)”. E aggiunge “i contadini devono essere dipinti con la stessa terra che vanno seminando”: il suo contadino poggia dunque i piedi per terra. E lui pure.

               Ancora: "Ho dipinto una serie di studi a colori, semplicemente dei fiori, papaveri rossi, fiori di campo e myosotis, rose bianche e rosa, crisantemi gialli, alla ricerca dei contrasti di blu, arancione, rosso, verde, giallo, viola, per armonizzare tons rompus e neutres con colori estremi, cercando di rendere l'intensità dei colori invece di un’armonia “grigia"".

               Trasferendosi dall'Olanda a Parigi, vedendo gli impressionisti, Van Gogh passa dai quadri “neri” (i mangiatori di patate) ad una gamma cromatica pura, chiara, dove le pennellate giustappongono timbri schietti.

               Poi, deluso dalle esperienze parigine, fuggirà ancora verso il sud, la Provenza, il sole, luci e colori ancor più limpidi e chiari, intensi.

               Dipingerà il ponte levatoio di Arles contro “un enorme sole giallo”. Il meridione trasforma la sua capacità visiva, gli fa vedere le cose e sentire i colori in maniera diversa.

Il coraggio di esagerare   

I colori oggettivi del sud verranno coraggiosamente esagerati: “bisogna battere il ferro finché è caldo”, scrive dalla Provenza a Theo: ancora l’immagine di qualcosa di rovente, di caldo, di grigio che diventa arancione e giallo. Van Gogh è acceso, illuminato, riscaldato da una foga creativa, che pure sa controllare. “Non credere che io mi mantenga artificialmente in uno stato febbrile, ma sappi che sono immerso in un calcolo complicato, dal quale escono rapide delle tele eseguite alla svelta ma lungamente prima calcolate”.

               La febbre... dunque ancora un riscaldamento, un aumento della temperatura, una malattia tenuta sotto controllo, un ingiallimento.

               Secondo la psicologia alchemica (introdotta da Jung, sviluppata da Hilmann), il giallo indica la malattia (la bandiera gialla della quarantena segnala malattie contagiose), ma anche il sole, la vitalità, il tuorlo dell’uovo, l’oro lucente. E' il colore più luminoso. Come tutti gli archetipi, ha una valenza contraddittoria: il vitalismo, ma anche i suoi pericoli.

               Secondo Kandinsky (Lo spirituale nell’arte) il giallo “paragonato allo stato d’animo dell’essere umano potrebbe fungere da rappresentazione cromatica della follia... di un eccesso di furore, della cieca follia, della frenesia”.

               Quando un uomo si ammala, ingiallisce. Lo stesso fanno le cose quando si decompongono, le foglie quando si seccano. Lo zolfo, emblema del giallo, divampa, brucia e bruciando emana cattivo odore, intossica chi ne aspira i fumi. La ricerca dell’oro è sempre anche una febbre.

               Il giallo ricarica, accende l’immaginazione, sprona la fantasia, eccita il sistema nervoso: ma, contemporaneamente, acceca, rende furiosi.

               In quei primi mesi in Provenza, Van Gogh è vitalissimo, esplosivo, creativo, folle in un senso non ancora patologico. La fioritura dei campi, sotto il mistral, accende la sua mente di una luce cristallina. Gira a piedi per le campagne, vagabonda per ore e ore, consuma le scarpe, pianta il cavalletto sui prati, arriva al Mediterraneo, si fonde con la natura, ne trasfonde la vitalità sulle tele.

           
            Vaso con tre girasoli collezione privata Stati Uniti


Capisce la potenza del colore, della luce, che esprime la forza della natura, ma è anche una potenza terribile, maligna, vorticante, superiore e indifferente all’uomo. Rigetta il primato della cultura per raggiungere il punto centrale della natura, il fuoco e l’energia che la esprimono, ne costituiscono il fondamento originario. “Ho scelto – scrive ancora a Theo – con piena coscienza la vita del cane; resterò un cane, sarò povero, voglio restare un essere umano, andando in mezzo alla natura”. Un cane ovviamente giallo.

           Il sole lo infiamma, sta vivendo un mutamento della sua vita, un’avventura meravigliosa. Ma guardare troppo il sole fa perdere la vista, il controllo sulle cose illuminate, la ragione.  “Portami il girasole impazzito di luce” scriverà Montale.

              

Invita in Provenza Seurat, Bernard, Gauguin. E quest’ultimo, convinto da Theo, arriva ad Arles, nella “casa gialla”. In una lettera a Gauguin, Vincent descrive “la camera gialla: un interno senza niente, di una semplicità alla Seurat, a tinte piatte ma con pennellate grosse, a pasta piena, i muri lilla pallido, il pavimento con un colore nero e sbiadito, le sedie e il letto giallo cromo, i cuscini e il lenzuolo limone verde pallido, le coperte rosso sangue, la toilette arancione, la brocca azzurra e la finestra verde”.             

Ma la convivenza con Gauguin fallisce, e in Vincent malato, corroso, scoppia la follia. Il giallo dello zolfo rivela il suo aspetto mortifero, diabolico, violento, tossico. Da allora, la febbre non sarà più tenuta sotto controllo, e alla lucidità si alternerà la follia. Si convince che qualcuno vuole avvelenarlo, si chiude nel mutismo. Non va d’accordo con Gauguin, lo spia quando dorme. Anche nel rapporto fra i due si accende una nota “gialla”. Gli tira addosso un bicchiere di assenzio, si avventa su di lui con un rasoio in mano. Poi, si taglia il lobo dell’orecchio. Si fascia alla meglio, incarta il pezzo di carne per consegnarlo alla sua prostituta preferita, raccomandando di conservarlo gelosamente. 

               Viene ricoverato, prima all’ospedale di Arles, poi nel manicomio di Saint Rémy. Ma continua a dipingere, anche all’ospedale psichiatrico, ritratti, autoritratti, sedie, poltrone, pipa tabacco e candele accese, le corsie della clinica. Si ritrae con l’orecchio bendato. Al suo psichiatra, il dottor Rey, che lo rimprovera di aver bevuto troppo alcool, risponde “lo ammetto, ma per raggiungere l’alta nota gialla che ho raggiunto quest’estate ho dovuto montarmi un poco”.

La volontà di essere pazzo                         

Sarà, e vorrà essere, consapevolmente “pazzo”, sarà curioso di conoscere la vita degli altri ricoverati, vorrà esercitare “il mestiere di pazzo”. La follia del suo “giallo” lo porterà ad altre visioni. La sua pittura si farà più barocca. La natura prende il sopravvento, le notti diventano “furiosamente” stellate, le nuvole rotolano, il vento tormenta gli ulivi, il mare è in tempesta, l'edera si avviluppa sui tronchi uccidendoli, il giorno e la notte si confondono, i cieli hanno le stesse striature dei campi, neri corvi volano sul grano giallo, cieli e terre son fatti di onde, tutto vortica, tutto circola. L’opera al giallo gli ha dato vita e calore, e lo ha fatto ammalare. Ha eccitato le sue visioni fino a fargli dipingere una natura violentemente animata. Una natura rabbiosa, esplosiva, malintenzionata, arrogante. Raccapricciante. Dopo aver dipinto la “Notte Stellata”, cerca di uccidersi, ha una crisi di follia. Parla di arruolarsi nella Legione Straniera, ha crisi mistiche, mangia i colori, ingoia la trementina, beve il petrolio delle lampade, urla alle suore, minaccia tutti di morte.

               Allora, torna a Parigi, consigliato da Theo e da Pissarro. Si affida alle cure del dottor Gachet, malato mentale lui pure, nella clinica di Auvers-sur-Oise, poco lontano dalla capitale. Ritrae il medico amico (soprannominato “dottor Zafran”, cioè zafferano...) appoggiato a una tavola, sopra la quale c’è un libro giallo e una pianta di digitale dai fiori purpurei. Continua a lavorare, freneticamente. In settanta giorni esegue settanta quadri e trenta disegni. Dipinge il “Campo di grano con volo di corvi”, ritenuta la sua ultima opera, uccelli neri sul campo giallo. Scrive l’ultima lettera al fratello (“nel mio lavoro rischio la vita e la mia ragione si è consumata per metà”). Poi, va nei campi e si spara. 

               Sulla bara, furono messi dieci girasoli.

 

 

 

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