Peccioli, dove l'arte è un virus creativo

Peccioli, dove l'arte è un virus creativo

Una delle opere d'arte che caratterizzano Peccioli (Archivio fotografico Fondazione Peccioliper)

Museo diffuso partendo da una discarica

Arrivo a Peccioli in un pomeriggio di luce obliqua, quando il sole decide di sacrificarsi contro un orizzonte ondulato per esaltare al massimo le colline pisane. L'impressione è quella di un borgo medievale senza pretese, di quelli dove l’odore dei vicoli e il silenzio antico ti riportano indietro nel tempo. Ma subito percepisco qualcosa di insolitamente “contemporaneo”, come se l’aria suggerisse: “Qui non troverai la solita sagra.”

È curioso come la fama di Peccioli, fino a pochi decenni fa, fosse legata principalmente a una grande discarica a Legoli. Quando un luogo è noto soprattutto per i suoi rifiuti, diventa spontaneo chiedersi perché restarci a vivere o addirittura visitarlo. Qui però è accaduto qualcosa di notevole: l’elemento più scomodo è diventato il fulcro di un progetto artistico-culturale. Un salto mortale dal semplice “sbarazziamoci del problema” a un radicale “coltiviamo la contraddizione.”

Ammetto che l’idea di trasformare un impianto di smaltimento in teatro e simbolo di innovazione mi abbia inizialmente disorientato: Peccioli oggi è un laboratorio d’arte pubblica a cielo aperto, e il merito è anche della sua discarica. Tutto inizia nel 1997, quando nasce Belvedere S.p.A., società mista (pubblico + cittadini) che gestisce i rifiuti - un terzo di tutta la Toscana - e reinveste parte dei profitti in opere artistiche, servizi e vantaggi fiscali per la comunità.

Ecco allora che la discarica diventa il perno attorno a cui il borgo gira. Il progetto - nel suo nucleo più ardito - non si limita a qualche opera in esposizione temporanea, ma vuole proprio trasfigurare le strade, i muri e le piazze di Peccioli in un museo a cielo aperto. Agli artisti si chiede di inventare qualcosa che nasca dal territorio e parli al territorio, non di importare semplicemente qualche scultura fuori contesto.



Un'immagine di Peccioli, paese diventato opera d'arte (Archivio fotografico Fondazione Peccioliper)

È un’economia che si fa estetica, un’estetica che produce economia. Il fatto stesso di andare controcorrente - non negando la discarica, ma esaltandola come motore propulsivo - si configura come un atto d’arte concettuale in sé.

Cammino per le viuzze, mi fermo a guardare un muro dove un’opera astratta gioca con le forme e i colori di un passato medievale. Mi domando se la gente del posto si renda davvero conto del salto semantico che ha compiuto con questa trasformazione: da borgo periferico a laboratorio creativo. Da un problema (ecologico, sociale) a un’opportunità d’innovazione. Se la discarica è la prima parola di questo racconto, l’arte contemporanea ne è l’ultima. In mezzo, c’è una visione che rende plausibili - anzi naturali - entrambi gli estremi.

Ora, c’è un fatto che merita di essere contemplato con la dovuta calma: la gente del posto sembra aver accettato di vivere in un borgo che da alcuni anni si è trasformato in un laboratorio artistico a cielo aperto.

Credo che, per capire fino in fondo questa storia, si debba abbandonare l’idea che un’area rurale sia “fuori dal mondo”. Peccioli non cerca la mimesi con Firenze o Pisa, non cerca di essere un museo come gli altri. Qui il museo è letteralmente “diffuso,” un organismo vivente che si nutre di risorse economiche provenienti da ciò che potremmo considerare, a priori, il male assoluto (la spazzatura) e le riconverte in bellezza, servizi e idee. A pensarci bene, è una metafora potentissima: la materia di scarto che diventa arte, il male che si trasfigura in bene.

Passeggiando, capita di svoltare un angolo e imbattersi in un murale, o in una scultura, che pare sbucata dal niente: eppure, osservando bene, la posizione è scelta con cura, il linguaggio visivo rispecchia qualcosa di profondamente radicato nel paesaggio. Ecco, tutto questo mi comunica la consapevolezza che qui, negli anni, l’arte non è rimasta un oggetto esogeno, calato dall’alto, ma è cresciuta in loco, insieme alla gente, ai turisti curiosi, ai professionisti coinvolti.

È quasi un atto politico: non “politico” nel senso di partiti o bandiere, ma politico come consapevolezza di contribuire a ridefinire i contorni di un habitat pubblico e culturale. La gente, nella sua variegata fauna, partecipa a questo esperimento in modi sorprendenti. A Peccioli, i manufatti artistici interagiscono con le persone, con la polvere, con la pioggia, con la vista di chi passa in motorino. Diventano parte di un continuum, non una trovata estemporanea.


Peccioli con una delle opere d'arte che la rendono unica (Archivio fotografico Fondazione Peccioliper)

È questa “capillarità” a colpire chiunque passi di qui: non c’è un unico museo (chiuso o aperto che sia) ma un intero territorio che diviene museo, con una rete di opere, edifici, passerelle e teatri, tutti cuciti da un’unica visione di fondo. Anche a volerlo, è quasi impossibile sfuggire all’esperienza estetica.

D’altronde, se un luogo di cinquemila abitanti (4.655) finisce su riviste specializzate e trasmissioni nazionali per le sue passerelle variopinte e i suoi wall drawing (cioè i disegni murali) – e se la discarica diventa un generatore di eventi e concerti – forse qualche domanda su come intendiamo la periferia ce la dovremmo porre tutti. Qui l’arte non è un orpello per turisti, ma una specie di virus creativo che ha contagiato ogni angolo, dalle campagne ai parcheggi multipiano.

E allora sì, Peccioli un po’ ci mette in crisi: se loro sono riusciti a rendere poetica perfino la gestione dei rifiuti, che scusa abbiamo noi per non ripensare il nostro territorio?

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