Tuttomondo, la speranza tradita

Tuttomondo, la speranza tradita

"Tuttomondo" di Keith Haring, a Pisa (cr. Dimitris Kamaras Wikimedia commons)

Era il 1989, Haring immaginava un futuro di pace

Un muro-arcobaleno firmato da Keith Haring. Ero lì, col mio zaino, in bilico tra il caffè appena preso e l’ansia per un appuntamento saltato. Davanti a me, un brulichio di figure coloratissime: il delfino sulle spalle di un omino, una forbice antropomorfa che sconfigge un serpente, una donna che solleva un bambino come fosse l’oggetto più prezioso del mondo.

Immaginate di essere un turista qualsiasi, il passo esitante e l’immancabile app con tutte le “cose da vedere a Pisa”. Passeggiate per la città e improvvisamente, una cosa poco-da-Pisa: Tuttomondo, l’ultimo murale di Haring, un trattato visivo sulla condizione umana in salsa pop.

Pare che la realizzazione di quest’opera abbia coinvolto studenti, aziende locali, volontari, manovali occasionali e varia umanità. Un’operazione che più comunitaria di così non si può. Gente che dava il bianco di fondo, che portava i secchi di vernice, che correva a comprare nuovi pennelli quando i vecchi si consumavano. Era tutto così limpido: un gruppo di persone che si muoveva all’unisono per creare un’opera che, a conti fatti, ricorda un po’ la vita stessa, un insieme di corpi e gesti che non potrebbero essere più diversi, eppure si incastrano. Non è un caso se Haring, nel suo diario pisano, scrisse: “Se c’è un paradiso, spero che assomigli a questo.”

L’anno decisivo

Il murale è del 1989. Un anno così denso di simbolismo storico che ormai si studia sui libri di scuola con quella stessa riverenza imbalsamata che si riserva alle date “che hanno cambiato il mondo”. Proprio in questo contesto, Keith Haring sta dipingendo il suo muro. Ma non un muro che divide, non una barriera. No: un collage caotico e festoso di umanità, una sorta di visione psichedelica in cui tutto si mescola e si interseca, un mondo che non ha più spigoli, solo curve, incastri, contatti.


Una visione generale di "Tuttomondo" sul lato della canonica di Sant'Antonio a Pisa (cr. Sailko Wikimedia commons)

Se c’è un’opera che incarna il sogno di quell’epoca – la speranza o l’ingenuità che l’umanità fosse pronta a una nuova era di armonia – è proprio Tuttomondo. Perché qui non si tratta solo di trenta figure che sembrano uscite da un cartone animato: qui c’è un’idea, un messaggio, un piccolo manifesto visivo del “nuovo mondo” che, per un attimo, sembrava davvero a portata di mano. Un mondo senza più barriere, senza più “noi” e “loro”, senza più serpenti velenosi pronti a mordere il futuro (e se ce ne sono, ci sono anche delle forbici pronte a tagliarli di netto).

Ma ora, a distanza di decenni, mi viene da pensare che quei muri caduti all’epoca si siano moltiplicati nella mente della gente. Non è un paragone fisico, non sto dicendo che ci siano più muri di cemento armato in giro. È che a guardare questo dipinto - una sorta di puzzle vivente, dove ogni figurina sta incastrata con l’altra - ti verrebbe da pensare: “Ehi, magari l’umanità non è poi così divisa”. E intanto, se accendi la radio o guardi lo smartphone, sembra tutto il contrario: confini, recinti, controlli, reticolati. Siamo in un’epoca in cui le divisioni appaiono più sofisticate ma ugualmente letali. C’è tipo un cortocircuito tra l’invito gioioso che Haring lanciava al mondo e la piega che il mondo ha preso davvero.

Il suo testamento

C’è però un altro motivo per cui Tuttomondo è speciale. Ed è il più semplice di tutti: Keith Haring sapeva di stare per morire.

A 31 anni, il suo corpo gli stava già dicendo che non ci sarebbe stato un altro murale. L’Aids, che negli anni ’80 è un mostro ancora senza volto, senza cure, senza speranza, sta portandosi via un’intera generazione di artisti, attivisti, pensatori, persone che avevano sognato un mondo più libero e più giusto. Haring, che aveva passato gli anni precedenti a disseminare i suoi omini saltellanti e i suoi cani abbaianti nelle metropolitane, sui cartelloni pubblicitari, perfino nei club e negli ospedali, sa di essere tra loro. Eppure, cosa sceglie di fare? Dipinge. Dipinge figure che si stringono, che ballano, che si aiutano. Dipinge un mondo in cui l’arte non è un privilegio ma qualcosa di accessibile, di condiviso, di parte della vita quotidiana. Sapeva perfettamente che un’opera d’arte pubblica non è mai davvero “finita”. Perché non è l’artista a completarla, ma la gente.


Keith Haring, morto poco dopo avere terminato "Tuttomondo" (cr. Bernard Gotfryd Wikimedia commons)

Tuttomondo è forse la dimostrazione più chiara di questa filosofia. Haring non dipinge da solo, non si chiude in uno studio per settimane per poi rivelare al mondo la sua creazione finita. No, lui dipinge davanti a tutti. Dipinge mentre gli studenti della Normale e del Sant’Anna passano in bicicletta lanciando occhiate distratte, mentre i turisti si avvicinano con l’aria di chi non sa bene cosa sta guardando, mentre i bambini si fermano ipnotizzati dai colori e dall’energia cinetica del murale.

Sul fatto che nel 2025 la situazione complessiva sia forse peggiore che nel 1989 – e che, con un po’ di onestà intellettuale, dovremmo ammettere di sentirci meno ottimisti che mai – il murale non tace: al contrario, sembra rispondere con un inno di colori e forme, come a dirci: “Prova a ricordare quella volta in cui potevamo cooperare”. Chiaro, è un’utopia ma dopotutto che cos’è la vita senza un filo di utopia?

Me ne sono andato da quella piazzetta con un leggero senso di gratitudine, con il pensiero che ciò che vediamo non è tutto, e che un muro dipinto può essere una minuscola fessura attraverso cui scorgere un universo più empatico.
E questo, almeno per quella volta, mi è bastato.

 

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