Il Sioux venuto dalla Padania

Danza rituale di una tribù nativa americana (opera di George Catlin Wikimedia commons)
Un esule patriota vissuto con gli indiani
Sul finire del corso di laurea magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia, quando mi mancavano gli ultimi quattro esami, e più o meno otto mesi alla sessione di laurea che era il mio obiettivo, andai a parlare con il professore di antropologia museale per proporre la tesi. Il corso mi era piaciuto molto, il professore era sempre stato molto disponibile e un po' per interesse e un po' oggettivamente per comodità gli proposi come argomento uno studio sui Musei Civici di Reggio Emilia, appena riallestiti secondo il progetto di Italo Rota. Ho parlato di comodità perché abito a 260 metri dal museo.
Il professore per prima cosa si scusò di non avere ancora visto il nuovo allestimento, poi mi sparò subito una domanda a bruciapelo: “Ma la collezione Spagni è ancora lì vero?” Io mi ero appena rinfrescato la memoria con due o tre visite accurate del museo, che poi sarebbero divenute quotidiane, ma, colto di sorpresa e completamente interdetto, chiesi quasi umilmente (alla Fracchia per intenderci) di cosa stava parlando. “La piccola raccolta di reperti, manufatti e abbigliamento dei nativi americani” mi rispose.
Ritratto di Antonio Spagni e foto di Antonio Panizzi (autore ignoto ed Elliot & Fry Wikimedia commons)
Allora capii che si riferiva alle due teche, che ricordo fin da bambino, in cui sono esposti arco, frecce, calumet e due tuniche istoriate di capi guerrieri Sioux e Cheyenne. Lo rassicurai che nulla era stato toccato. “Bene - mi disse soddisfatto – Sono reperti preziosissimi. Lei non sa che importanza hanno. In America gli dedicherebbero un museo tutto loro”. Come scopersi poi, il professore era allievo dell'autrice dell’unica monografia su quella collezione.
A quel punto mi appassionai su Antonio Spagni, che nel 1844 donò al museo di Reggio Emilia quei pezzi da lui raccolti nel decennio precedente, mentre percorreva il Nord America come cacciatore di pellicce. Da qui l'importanza dei reperti, poiché si tratta di una testimonianza quasi unica del momento culminante della civiltà degli indiani delle pianure. Per capirci parliamo di un’epoca precedente di almeno trent’anni anni a quella ritratta nel film Balla coi lupi.
Particolare di un disegno ispirato al film "Balla coi lupi" (cr. Atula Siriwardane Wikimedia commons)
Pare incredibile, ma di oggetti del genere (di quell’epoca e di quella qualità) ce ne sono molto pochi anche negli Stati Uniti. Infatti il grande lavoro antropologico di salvaguardia delle lingue e delle culture dei nativi americani prese vita solo qualche decennio più tardi, quando fu evidente il rischio della scomparsa totale dell'incredibile ricchezza e varietà della loro civiltà.
Ma chi era dunque il signor Spagni? Era prima di tutto un patriota e un esule politico, appartenente a quelle generazioni post-napoleoniche, carbonare e poi mazziniane, che tra gli anni venti e trenta dell’Ottocento furono protagoniste dei primi e sfortunati moti risorgimentali. Moltissimi fuggirono all'estero, alcuni anche nel Nuovo Mondo (Giuseppe Garibaldi ovviamente è il più famoso), mentre altri rimasero in Europa, trovando rifugio per lo più in Svizzera, Francia, Belgio e soprattutto Inghilterra, come Antonio Panizzi, che divenne il direttore della British Library e l'artefice della famosa grande Reading Room.
Con l’Unità d’Italia vi fu chi tornò assumendo ruoli importanti, molti altri invece non divennero né ricchi né famosi e vissero vite avventurose senza essere avventurieri. La loro storia è in gran parte ancora da scrivere, poiché quasi ogni città dell’Italia del nord può rivendicare personaggi con biografie simili.
Parte del materiale della collezione Spagni esposto ai Musei civici di Reggio Emilia (cr. Carlo Vannini Musei civici Wikimedia commons)
Spagni, di famiglia benestante, ma rimasto molto presto orfano, già dopo i moti del 1831, a poco più di vent’anni, andò in America, dove cacciò e commerciò in pelli e in tabacco, vivendo a lungo con tribù indiane. Non tenne però diari di viaggio, né pubblicò relazioni, come invece fecero altri viaggiatori e patrioti italiani, che come lui si trovarono ad essere etnografi per caso. Tornato a Reggio Emilia, si sposò con la figlia di un altro esule e visse agiatamente in Francia fino a che un tracollo finanziario lo mandò sul lastrico. Allora, anche se non più giovanissimo (aveva 46 anni), partì nuovamente per trovar fortuna, ma stavolta gli andò male. Finì addirittura a fare il cercatore d’oro in Australia, dove vent’anni dopo morì letteralmente di stenti, senza un soldo.
Di lui ci rimangono solo poche lettere, disperate, e i ricordi imprecisi del figlio, che in età adulta vide pochissimo. Non è una storia a lieto fine, anche se la sua eredità in termini antropologici è molto importante. Rimane il fascino triste di questi italiani di due secoli fa, che viaggiarono per l’intero mondo, mossi da ideali rivoluzionari e da passioni più umane, spesso alla ricerca di una felicità che raramente gli fu dato di trovare.
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