Possiamo fidarci della Storia?

Possiamo fidarci della Storia?

Novembre 1989, si prelevano pezzi dal muro di Berlino (cr. Raphael Thiemard Wikimedia commons)

Le guerre, l’uomo bianco e l’errore di Fukuyama

La storia è prima di tutto un modello di pensiero e come tale produce significati sociali su quelle particolari forme di rappresentazione antropologica che sono il tempo e lo spazio. La storia europea predilige la variabile temporale; la storia di altre realtà quella spaziale.

In entrambi i casi però, la storia è esercizio dinamico che media le risorse simboliche, affidandole via via al dispositivo che organizza il senso da attribuire ai fatti, in una comprensione organizzata da una matrice ermeneutica; oppure è azione di ricerca che si attiene ad una valenza pedagogica, attraverso la quale ricomporre la mediazione intergenerazionale. Materia quindi di saccheggio da parte di ogni potere, che voglia trasformare, attraverso l’egemonia delle coscienze il proprio ruolo di controllo, in mero dominio. Ma d’altra parte, costrutto indispensabile a forgiare una mentalità democratica, consapevole che la critica del passato promuove un agire pubblico autonomo e fertile.


Guerra dei 30 anni "Soldati saccheggiano una fattoria" (Sebastiaen Vrancx Deutsches Historisches Museum Wikimedia commons)

La guerra da sempre mantiene un rapporto solido con le parole della storia, spesso generando i linguaggi che ne determinano le interpretazioni, o almeno condizionandone gli intenti. Si può dire che le stesse basi del pensiero razionale europeo abbiano trovato nel polemos di Eraclito il proprio soggetto fondativo. Tuttavia proprio a partire dalla riflessione filosofica di Platone, la guerra era da scomporre in due forme: stasis e polemos, cioè due pratiche belliche declinate sul binomio interno – esterno, dove lo spazio politico legittimava la guerra esterna contro i barbari e condannava quella interna tra cittadini.

In effetti tutta la parabola della modernità vede nascere l’espansione europea alla luce delle categorie di razza, civiltà, religione, in maniera da espellere pian piano il conflitto dal perimetro dello Stato-nazione, per abbracciare zone nuove di influenza e controllo sempre più estese, da assoggettare con la violenza e l’ideologia.

La prima guerra dei trent’anni (1618-48) stabilisce un principio di regolamentazione del conflitto, che pone un argine alla dimensione irrazionale, incarnata all’epoca dal fanatismo identitario religioso. La seconda guerra dei trent’anni (1915-1945) è una perversa catarsi che trasfigura l’epopea delle masse, lacera il cuore di tenebra del progresso e riconsegna l’umanità alla dubbia morale dei blocchi contrapposti. Nasce perciò il tabù del ricorso alla violenza sul suolo di quello stesso continente, che aveva alimentato 300 anni pressoché ininterrotti di guerre, esternalizzando per così dire le tensioni cruente negli scenari “secondari” del pianeta.

Sarajevo 1992, scambio di prigionieri (cr. Mikhail Evstafiev Wikimedia commons)

La guerra di stirpe nella ex Jugoslavia, succedanea al crollo dei contrafforti della guerra fredda, era il primo trauma di questa narrazione, ma tutto sommato rientrava nell’immagine ferina dei popoli slavi, che tanta indignazione avevano gettato nell’opinione pubblica europea già nel 1912/13, nelle cosiddette guerre balcaniche (dimenticando quanto al contempo andavano compiendo in termini di nefandezze le truppe coloniali nel resto del mondo).


Tank russo catturato dall'esercito ucraino (cr. Roman Pilipey Wikimedia commons)

L’invasione russa dell’Ucraina, tuttavia gettava una luce differente sui meccanismi di quella logica che pensava e pensa all’Europa prima di tutto come una morale suprema, nutrita della lezione di Auschwitz. Tanto che oggi ne conosce la nemesi perentoria in quell’osceno cortocircuito etico, per cui l’antisemitismo partorito nell’alveo della civiltà europea, diviene lo schermo attraverso il quale, nella memoria dei milioni di ebrei sterminati si legittima la parabola che alimenta il genocidio di Gaza. Il progetto sionista, anch’esso europeo, anziché svelarsi una volta per tutte come occasione per denunciare ancora una volta che ogni identità nazionale, contiene soprattutto tossine nocive, stravolge il senso del Kairòs benjaminiano, finendo con l’avverarsi come metastasi del progetto suprematista occidentale.


L'ingresso ad Auschwitz Birkenau (cr. Jason M. Ramos Wikimedia commons)

E allora “bisogna credere che la storia ci abbia ingannati?” chiede un compagno a Marc Bloch, nel capolavoro Apologia della storia.  La risposta sarebbe sì, se avessimo dato retta a Fukuyama, cioè alla sua a dir poco ingenua esternazione, per la quale, manipolando con poca accuratezza gli strumenti della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, individuava nel tracollo dei regimi comunisti, la Fine della Storia, cioè quel processo che realizzava appieno l’ordine liberale, globalizzandolo. Ciò in altri termini, corrispondeva alla presa d’atto che la coscienza democratica occidentale diveniva autocoscienza normativizzante, spostando finalmente il confine dell’umano verso l’avvento dello “spirito assoluto dell’uomo bianco”, nella piena corrispondenza tra realtà e razionalità.


Bernardo di Chiaravalle e Agostino di Ippona (di Antonio Vazquez e scuola lombarda Wikimedia commons)

La storia si riduceva a rappresentazione scenica nel teatro di un presente definitivamente realizzato. Una narrazione che legittimava il ricorso all’ossimoro della guerra giusta, già declinato in epoche drammatiche da Agostino di Ippona e da Bernardo di Chiaravalle, che porterà alle disfatte delle guerre americane, in Iraq e in Afganistan, dove l’esportazione della democrazia serviva a piantare dei paletti, oltre i quali la storia stessa diveniva farsa.

Come rispondere invece alla crisi attuale? La storia torna ad esercitare il suo corso attraverso la catastrofe, come quella nave che lascia le sponde per navigare in mare aperto. Come la filosofia, alimentandosi del trauma, cercando di imbrigliarlo con i suoi strumenti scientifici. Sottraendoci alla paura che ne deriva e provando a indicare se non una soluzione all’inguaribile dilemma dell’umano, almeno una possibile via d’uscita.

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