Quando tutto era possibile

La piccola Claudia aiuta a lavare la 600 dei genitori (cr. famiglia Carri)
L’Italia degli anni 60 negli occhi di una bambina
Claudia Carri è stata di recente una delle protagoniste dello spettacolo "Studio Uno - Un viaggio negli anni 60 italiani", curato da Centro coreografico nazionale, Aterballetto e Libera università del Crostolo di Reggio Emilia. Lo spettacolo ha riportato a galla emozioni, sensazioni, ricordi di una bambina che si affacciava alla vita nel periodo più fecondo della storia del dopoguerra. Claudia Carri ha voluto regalare queste emozioni ai lettori di iosonospartaco.
Se penso agli anni ‘60, quelli della mia infanzia, penso a un’Italia che correva veloce e fiduciosa verso il futuro e io collego ora questa sensazione a una fotografia in bianco e nero, bellissima, che mi ritrae a circa tre anni in cortile, in mutandine e canottiera rigorosamente bianche, capelli corti da maschietto alla Caterina Caselli, con una spugna bagnata quasi più grande di me: sto lavando l’auto di mio padre, una 600 bianca, con un sorriso orgoglioso e soddisfatto e gli occhi vivaci che bucano l’obiettivo. Un’auto simile a quelle con cui le famiglie italiane come la mia - d’estate - iniziavano quello che solo successivamente diventerà il “rito” delle vacanze, ma che allora era ancora una dimensione sconosciuta.
Il viadotto di Roncobilaccio sull'autostrada del Sole, oggetto di una cartolina ricordo (cr. Albertomos Wikimedia commons)
Era un’esperienza nuova ed elettrizzante che esprimeva la gioia di vivere e il senso di libertà che allora attraversava tutto, persino gli abiti che riproducevano nelle loro fantasie geometriche lo spazio recentemente esplorato e conquistato o come la minigonna, creata da Mary Quant nel 1964, una sorta di dichiarazione di indipendenza, libertà ed emancipazione. La moda libera, popolare, “da strada”, si sostituiva a quella degli atelier, per una donna moderna, incarnata dalle gemelle Kessler, da Mina, da mia madre.
Ragazze texane in minigonna (cr. Ed Uthmann Wikimedia commons)
Che gambe, che voce e che spiritosa intelligenza. Che raffinata e naturale eleganza nei loro gesti: “simplex munditiis”, nella sua semplice raffinatezza dice Orazio della sua affascinante Pyrra. Così vorrei definire anche la Tv di quegli anni, con quel bianco e nero così suggestivo, con gli spazi vuoti solcati dalla perfezione delle linee delle scenografie, degli abiti, delle regie di Falqui, con le coreografie artisticamente innovative di Don Lurio, con le voci precise e definite di Lelio Luttazzi e Walter Chiari, in uno Studio Uno rivoluzionario nella sua – appunto - eleganza.
Mina durante una registrazione di Studio Uno (foto da una rivista Wikimedia commons)
Un vero varietà televisivo, con quella combinazione di forme di autentico spettacolo orchestrate da una grande regia. E quelle soubrettes così vivaci che sgambettavano con energia erano un invito neanche tanto implicito alle donne a prendersi la propria libertà di movimento, mentre magari poco dopo un piccolo ma grande Bruno Lauzi cantava la propria tristezza di uomo lasciato da una donna, che sicuramente - lui sperava - si sentiva sola con la sua libertà e che perciò sarebbe ritornata.
La Tv degli anni ‘60 era una fonte continua di ispirazione per me e credo per tutti, una vera e propria finestra aperta sul mondo, anzi, sull’universo, con quelle straordinarie sigle di apertura che annunciavano meraviglie e quelle di chiusura che ti proiettavano direttamente nel cosmo.
Tutto era veramente nuovo e possibile: la musica si era liberata anche fisicamente delle pose ingessate e delle voci costruite e lo aveva già fatto qualche anno prima con il famoso gesto di Domenico Modugno che si tolse la giacca al Festival di Sanremo del 1958 e che cantando Nel blu dipinto di blu allargò le braccia come per spiccare il volo: un’eresia per l’epoca. Ma io lo ricordo, anche se non ero ancora nata, perché Modugno era l’idolo di mio padre e quell’episodio me lo raccontò innumerevoli volte. Così come innumerevoli volte ascoltai i suoi 45 giri e quelli di Mina e Morandi, quei dischi che facevano clic quando finivano, come recita la sigla di chiusura dei 45 delle Fiabe sonore, altro grande amico della mia infanzia.
Loretta Goggi, Glauco Onorato e Aldo Reggiani in "La Freccia nera", 1968 (pagina facebook Hello Goggi)
Gli italiani conobbero il teatro e il grande romanzo con sceneggiati come La cittadella, ma quello che veramente appassionò migliaia di bambini e adolescenti fu La freccia nera, con un grandissimo Arnoldo Foà e due giovani attori di grande talento e futuro come Loretta Goggi e Aldo Reggiani, di cui la sottoscritta era perdutamente innamorata. Quella sigla finale così coinvolgente, con un testo che parla di “gente che val meno di niente e che niente non ha”, e quella ragazza con i capelli corti che si finge un maschio per sfuggire a un matrimonio che non vuole completavano il quadro di un piccolo capolavoro, ben lontano dalle zuccherose miniserie televisive attuali, oltretutto interpretate da attori mediocri, diretti da registi più che modesti.
In quegli anni ci furono grandi speranze alimentate a livello mondiale da un presidente statunitense giovane e da un uomo che credeva fermamente nei sogni mentre guidava 200.000 persone in una marcia pacifica in nome dei diritti umani, da un russo nello spazio, da un medico che trapiantava per la prima volta un cuore umano, da una donna a capo della più grande democrazia del pianeta, figlia di un grande pacifista. Ci furono tragedie come la guerra in Vietnam e il colpo di stato in Grecia, ma ho ancora vivo il ricordo dello sdegno e dell’ondata di ribellione che questi fatti suscitarono nelle persone e la lunga vibrazione di sentimenti profondi che questi eventi mi trasmisero, fino almeno agli anni ‘70, a partire da quei primi anni ‘60 che cambiarono tutto.
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