La piccola vedetta siciliana

La piccola vedetta siciliana

Giovanni, secondo da destra, giovane ufficiale nella Grande guerra (foto concessa da Mirta Pollari)

Non è De Amicis, è la Grande guerra

Se esistono luoghi con una maggiore capacità generativa di storie rispetto ad altri, a me viene da pensare subito alla Sicilia, e non solo per diritto di nascita. Potremmo rifarci alla sua deriva nel Mediterraneo, quel suo staccarsi, diventando da laguna (ce lo dicono i fossili) arcipelago; con pazienza questo embrione guarda il mare che evapora e poi, qualche milione di anni dopo, lo stesso mare erompe dalle rocce di Gibilterra e risistema gli equilibri: da un lato la Sicilia, dall’altro non l’Italia o l’Europa, ma il mondo. Già, perché i Siciliani, interessante composto alchemico di più popoli (e non mi riferisco ai blanditi conquistatori), da sempre - in aperto contrasto con la realtà delle cose - si sono sentiti padroni del mondo, del loro mondo, s’intende. Con rara capacità di mimesi hanno creato (e continuano a farlo) un universo il cui centro coincide con sè medesimi: non mi riferisco ad esempi tratti dalla letteratura, ma anche al più semplice venditore ambulante che ritiene il mondo incompleto se privato della sua essenza. Lo so, siamo complicati, ma d’altronde i Sofisti ci hanno insegnato i “dissoi logoi” e noi siamo stati eccellenti allievi.

Dalle stecche della persiana filtra una luce mogia e la donna, assorta, ha in grembo il tondo del cucito, come sfiorito, simbolo, non certo occupazione.

Il marito tossicchia incerto, prende tempo e non sa come dirglielo, perché il viso di lei è già tutto un dispiacere:

“Non bastava Totò? Ora anche Titì”

“Che ti devo dire? Giovani sono”

“Vuoi dire picciuttieddi, ragazzini?

Serafina e Filippo sono una coppia palermitana e hanno due figli, Salvatore, zio mai conosciuto, e Giovan Battista, mio nonno. 

E’ l’estate del 1915 e nella loro casa borghese è appena entrato, insieme allo Scirocco, il gelido vento della Grande Guerra. Il figlio più grande si è arruolato volontario ed è già al fronte, mentre il minore scalpita, scartabella, traffica: anche lui sente il richiamo della retorica con cui abilmente l’opinione pubblica seduce i più giovani.

Giovanni, dunque, contraffà in qualche maniera i documenti e si presenta all’ufficio di leva: lo prendono, certo. Primo dramma.

Come soldato. Secondo dramma.

A questo punto, dovendo scegliere un male minore, la madre si adopera con ulteriore imbroglio: di nascosto a tutti paga l’esorbitante cifra di mille lire e Titì diventa ufficiale, di fanteria, ma ufficiale. Non è l’onore che si cerca di salvaguardare, quanto la possibilità concreta di affrontare meno pericoli.

E così avvenne che mio nonno, giovane prestante, passò praticamente la guerra sugli alberi, venendo sempre reclutato come vedetta. Praticamente un arboricolo.

Il loro padre, già molto devoto, praticamente trascorse i tre anni in Chiesa a pregare, mentre la madre, invece, preferiva affidarsi ai tarocchi: Ibis, redibis.

Si fece onore - presumo - dal numero di medaglie appuntate sul petto: ma non raccontò mai nulla, se non il viaggio di andata, la tradotta carica di ragazzi e di cibo. Sembrava una festa; non tardarono ad accorgersi dell’enormità dell’errore.


La cassetta da ufficiale riportata dalla guerra (foto concessa da Mirta Pollari)

Al ripresentarsi del secondo conflitto, fu reclutato: entusiasmo zero, senso del dovere ineludibile.

La vulgata familiare sostiene che furono le preghiere di mia nonna - intanto si era sposato ed era diventato padre - a fargli conferire l’incarico di reclutatore di… quadrupedi, muli, asini e cavalli per la precisione. Tutti rigorosamente occultati all’arrivo della camionetta nelle contrade rurali del Palermitano.

Per anni abbiamo usato i fazzoletti con la corona e la scritta R. E. I., Regio Esercito Italiano, e la reliqua cassetta da ufficiale custodisce tuttora qualcosa: bottoni spaiati di abiti ormai lisi, spagnolette sperdute, fotografie senza data di volti ignoti.

 

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