Mandati a quel paese dal Santo

Mandati a quel paese dal Santo

Un fedele bacia la statua di San Calogero (cr. Riccardo Spoto Wikimedia commons)

Troppa devozione, a Calogero restò solo il dito medio

Se esistono luoghi con una maggiore capacità generativa di storie rispetto ad altri, a me viene da pensare subito alla Sicilia, e non solo per diritto di nascita. Potremmo rifarci alla sua deriva nel Mediterraneo, quel suo staccarsi, diventando da laguna (ce lo dicono i fossili) arcipelago; con pazienza questo embrione guarda il mare che evapora e poi, qualche milione di anni dopo, lo stesso mare erompe dalle rocce di Gibilterra e risistema gli equilibri: da un lato la Sicilia, dall’altro non l’Italia o l’Europa, ma il mondo.
Già, perché i Siciliani, interessante composto alchemico di più popoli (e non mi riferisco ai blanditi conquistatori), da sempre - in aperto contrasto con la realtà delle cose - si sono sentiti padroni del mondo, del loro mondo, s’intende.
Con rara capacità di mimesi hanno creato (e continuano a farlo) un universo il cui centro coincide con sé medesimi: non mi riferisco ad esempi tratti dalla letteratura, ma anche al più semplice venditore ambulante che ritiene il mondo incompleto se privato della sua essenza.
Lo so, siamo complicati, ma d’altronde i Sofisti ci hanno insegnato i “dissoi logoi” e noi siamo stati eccellenti allievi.

Cominciando dalla fine occorre subito precisare che San Calogero, colendissimo patrono di Agrigento, è un Santo per dispetto. Infatti, in famiglia il vero Santo d.o.c. è il fratello, Sant’Angelino, che tante ne dovette sopportare da Calogero, che era un furbone. Leggenda narra che i due erano dei contadini e Calogero illudeva Angelino con promesse di aiuto concreto nel lavoro, salvo poi rinviarle sine die.

A un certo punto Angelino si era stufato di queste continue dilazioni e stava per dare fuoco al raccolto, frutto esclusivo della sua fatica, quando Calogero, per impedire il danno, si lanciò per l’appunto nella vampa… diventando così Santo e, soprattutto, nero, come è tuttora effigiato nell’iconografia tradizionale.


Pirandello nel suo studio a Roma, 1934 (Wikimedia commons)

Veneratissimo ad Agrigento, è protagonista di una sanguigna festa il 18 di giugno, di cui ci fornisce un fedele resoconto Pirandello (che proprio nella Chiesa del Santo si sposò) nel suo romanzo, "L’esclusa", pur cambiando nome al Santo: A ogni breve tappa, dopo una corsa, dai balconi, dalle finestre gremite, alcune femmine buttavano per divozione sul fèrcolo e su la folla, da canestri, da ceste, fette di pan nero, spugnoso. E, sotto, la folla s’azzuffava per ghermirle. Nel frattempo, i portatori imbottavano fiaschi di vino e s’ubriacavano, sebbene quasi tutto il vino tracannato, di lì a poco, se n’andasse in sudore.

A quando a quando il fèrcolo diventava d’una leggerezza portentosa: procedeva allora con slancio irresistibile, salterellando tra l’allegro schiamazzo della folla. Tal’altra, al contrario, diventava d’una pesantezza insopportabile: i Santi non volevano andare avanti, rinculavano improvvisamente: accadevano allora disgrazie; qualcuno tra la folla rimaneva pesto. Un momento di pànico; poi tutti, per rifarsi animo, gridavano: – Viva San Cosimo e Damiano! – dimenticavano e procedevano oltre.

Ma più volte, giunti allo stesso punto di prima, ecco di nuovo il fèrcolo arrestarsi improvvisamente; tutti gli occhi allora si volgevano alle finestre, e la folla, minacciando, imprecando, costringeva coloro che vi erano affacciati a ritirarsi, poiché era segno che fra essi doveva esserci qualcuno che o non aveva adempiuto alla promessa o aveva fatto parlar male di sé e non era degno perciò di guardare i Santi.


Lo scrittore Andrea Camilleri (cr. Ass. Amici di Piero Chiara Wkimedia commons)

Un altro grande agrigentino, Camilleri, in uno dei suoi primissimi romanzi, “Il corso delle cose”, ritrae in maniera tanto veritiera quanto salace la processione ma la realtà, come questi due tardosofisti insegnano, supera la più sfrenata delle fantasie.

Una ventina di anni fa accadde qualcosa di particolare.

Il fercolo traballava, procedeva, sostava secondo strane leggi di gravità e di ebbrezza, quando da un balcone fu offerto - anzi scagliato - un pane votivo con una certa violenza e con precisione da cecchino: il proietto andò a colpire proprio la mano benedicente di San Calò’, che fu all’istante privato di tutte le dita, tranne che del terzo, il medio. Così in maniera beffarda il resto della processione vide non proprio un atteggiamento agiografico da parte della statua, bensì abbastanza insolito: il Santo fendeva la folla con l’aria di mandarla, invece, a quel paese.

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