La caserma Bastiani nel deserto

La caserma Bastiani nel deserto

L'accampamento della spedizione nel deserto libico (cr Alessandra Coppa per iosonospartaco)

In jeep verso l’oasi delle zanzare

Un puntino sulla carta geografica della Libia, affondato nel Sahara e molto più prossimo al Niger e al Ciad che alla mediterranea Tripoli. Un luogo che sembra inaccessibile e forse anche un po’ ostile, come suggerisce il suo nome: Waw an Namus, l’Oasi delle Zanzare. Un enorme vulcano spento che accoglie nella sua caldera laghi multicolore.

Noto per secoli solo ai nativi, di questo luogo così singolare compare traccia nel 1862 in uno scritto dell’esploratore tedesco Karl Moritz von Beurmann. Oltre cinquanta anni dopo sarà il francese Laurent Lapierre il primo straniero conosciuto a visitare questa zona, mentre è il geologo ed esploratore Ardito Desio, l'uomo della spedizione italiana sul K2, il primo scienziato a raggiungere il Waw an Namus all’inizio degli anni ’30 del secolo scorso.


La spedizione sul K2, Desio è in piedi al centro (cr. Centro documentazione montagna Wiki commons)

Oggi a Sebha, 800 chilometri a sud della capitale, due jeep e un pick-up di supporto si preparano ad affrontare i primi 900 chilometri di fuoripista. Direzione sud, verso l’Erg Murzuq, un maremoto con alte onde di sabbia oro e arancio. Sulla superficie, miliardi di granelli sospinti dal vento cancellano ogni traccia di passaggio e fanno fumare come camini le creste delle dune, in perenne lento movimento. Improvvisi paleosuoli, bacini di acqua prosciugati, conservano i segni di una vita estinta da millenni, frammenti di vasellame e asce, frecce preistoriche. Avanzare seguendo gli stretti corridoi interdunari equivale a un lungo giro in ottovolante. L’abilità degli autisti sta nel cercare il passaggio migliore, spesso provando e riprovando fino a quando, senza perdere d’occhio il sole e il gps, non si riesce a scavallare quel particolare cordone di dune, magari per ritrovarsi subito di fronte a un nuovo identico ostacolo.

Le pause per il pranzo sono veloci. Si prova a creare ombra stendendo teli fra i tetti delle auto. L’importante è reintegrare liquidi e sali minerali che non ci si accorge nemmeno di perdere, perché il sudore evapora immediatamente nell’aria secca del Sahara.

La rotta dei migranti

Una deviazione e d'improvviso tutto cambia. Verso est il deserto si fa pietroso, sassi che via via si mescolano a frammenti neri di arenaria e ancora dune di sabbia color cacao. A terra, piccoli pezzi di roccia scura e tagliente sempre più insidiosi minacciano le ruote dei fuoristrada. Il cambio gomma è sotto il sole implacabile di fine aprile, accompagnato da un vento bollente. Il termometro segna 47 gradi.

Poi l’incrocio con una pista solcata da innumerevoli tracce di pneumatici. Qua e là qualche utensile, un indumento, una ciabatta. Sono i percorsi dolenti dei clandestini che dal Ciad si apprestano ad attraversare tutta la Libia per raggiungere la costa. Pochi oggetti, capaci però di rappresentare con incredibile realismo e crudezza il dramma dell’immigrazione.

Finalmente il Serir Tibesti, piatto come un tavolo da biliardo, un nulla giallo oro, su cui rotolano le ombre delle nuvole. 

I campi per la notte vengono montati prima del tramonto. Tende mobili che non lasceranno traccia una volta smontate, rifiuti bruciati sul posto o sigillati in sacchi per essere smaltiti al ritorno. Il buio accende così tante stelle che materassini e sacchi a pelo vengono portati all’esterno in omaggio a tanta potente bellezza.

Il Waw an Namus si è spento migliaia di anni fa, anche se durante la sua attività ha probabilmente espresso la propria potenza principalmente con l’espulsione di lapilli, ceneri e blocchi di roccia. Alcuni chilometri prima di arrivare alla meta infatti la sabbia diventa scura e uno strato di nera roccia basaltica increspa il terreno. L’avvicinamento al bordo del vulcano avviene però quasi senza rendersene conto. Il cratere è a pochi passi e ancora nulla fa pensare alla straordinarietà di un drastico cambiamento di paesaggio che appare all’improvviso, al termine della salita di un dolce pendio.

Un’enorme ellissi di 11 chilometri per 4 degrada dolcemente verso il cuore del vulcano. Sul fondo un altro cono vulcanico, alto un centinaio di metri, tre laghi perenni che a prima vista appaiono di uno sconcertante blu cobalto. Il vento, che adesso soffia a più di 50 nodi, libera il campo anche dalle zanzare più temerarie e intorno è tutto così intatto che pare che nessuno sia mai stato qui prima. L’avvicinamento ai laghi, le cui acque salate fuoriuscirono dall’apertura di una falda freatica in seguito all’attività del vulcano, rende evidente una gamma assai più ampia di colori: riflessi verdi o di un tenuo rosa – violaceo, rosso vinaccia, giallo improvviso. Ai bordi, creste perlacee di sale.



Il lago perenne in mezzo al nulla (cr. Alessandra Coppa per iosonospartaco)

La vita è anche qui, grazie alla presenza di pozzi di acqua dolce che consentono la crescita di palme e canneti, il volo di tortore del deserto, la presenza delle anatre. Intorno sabbia e frammenti di roccia nera si rincorrono, dando luogo a chiaroscuri in perenne mutamento.

Il Waw an Namus deve essere stato un vero miracolo per le carovane di cammellieri lungo la pista infinita che collega il Fezzan a Kufra.

L‘unica presenza umana, a pochi chilometri dal vulcano, è quella di alcuni soldati, sistemati in un edificio precario, che accolgono con entusiasmo i rari visitatori, felici di rompere la monotonia dei loro turni di guardia. Un po’ Baghdad Cafè, un po’ Fortezza Bastiani.

 

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