La montagna dove comanda Satana

La montagna dove comanda Satana

L'ingresso di un tunnel nelle miniere di Potosė (cr. Marco Ebreo Wikimedia commons)

I minatori si affidano a "el Tio"

Il confine fra il mondo in cui si confida in Dio e quello in cui ci si affida al diavolo è un confine terrestre ed è quello che separa la luce dalle viscere buie delle miniere del Cerro Rico, in Bolivia. A quasi 4.100 metri sopra il livello del mare, nel cuore delle Ande, la “montagna ricca” si innalza sopra la città di Potosì con la sua caratteristica forma a piramide, riprodotta anche sullo stemma nazionale.  

Lo sfruttamento delle miniere di Potosí inizia attorno alla metà del 1500, in seguito alla scoperta accidentale di ricchi filoni d’argento nelle profondità della montagna. Per tre secoli il prezioso metallo viene estratto dagli indios e dagli schiavi africani a beneficio dei soli paesi colonialisti europei. In quei tempi la città di Potosì era ricca e fiorente.


Lavoratori delle miniere di Potosì (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

Il progressivo esaurimento dei filoni di argento restituisce una montagna svuotata, fragile al suo interno e solcata all’esterno da piste come cicatrici, dove ora cooperative di minatori continuano a lavorare in condizioni disumane, sperando in un ultimo filone o cercando altri metalli come lo zinco, lo stagno o il piombo.

Lo sfruttamento

Oggi i minatori sono principalmente contadini, che hanno dovuto abbandonare le proprie terre nell’altopiano perché insufficienti a sfamarli. Sono terre avare, un raccolto all’anno di patate e poco altro se l‘annata è favorevole; l’alternativa è scendere in città o andare a lavorare nelle miniere. Per diventare minatore occorre possedere tutta l’attrezzatura necessaria, come picconi, filtri per la respirazione e caschi, perché le aziende minerarie non li forniscono. Sono strumenti preziosi, spesso pagati con i primi guadagni, custoditi con cura per evitare che vengano rubati.


Il villaggio con le baracche dei minatori (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

A scendere nella miniera non sono solo uomini, ma anche ragazzi giovanissimi, poco più che bambini.  A volte lavorano a fianco di un genitore, altre volte un genitore non ce l’hanno e sono loro a garantire il sostegno alla famiglia, alla madre e a qualche fratello o sorella più piccoli. All’esterno le donne, mogli o vedove dei minatori, soppesano con le mani gli scarti delle lavorazioni alla ricerca di residui di minerale.

A rendere incredibilmente duro il lavoro di chi scende in miniera sono le condizioni di scarsa sicurezza delle gallerie, la temperatura che può raggiungere i 45 gradi, la polvere che giorno dopo giorno riempie i polmoni quando vengono fatte esplodere cariche per estrarre i minerali, i turni sfiancanti, la presenza di metalloidi come l’arsenico. La silicosi è una delle principali cause di morte.

Coca e preghiere

Per resistere a tutto questo i minatori fanno ricorso soprattutto alle foglie di coca, masticate in quantità e trattenute nell’incavo di una guancia. Aiutano a non sentire la stanchezza e la fame. Invece alla paura di non riemergere dalle viscere della “montagna che mangia gli uomini”, come la chiamano i locali, si fa fronte affidandosi al El Tio, il dio della miniera presente all’ingresso di ogni tunnel. Le sue fattezze ricordano quelle del diavolo e a lui i minatori offrono regolarmente foglie di coca, alcol, sigarette e accendono candele, per garantirsi la sua protezione in quell’inferno in cui non ci si può affidare a Dio.

“Quando lasciamo le nostre case ci facciamo il segno della croce e chiediamo a Dio che non ci accada nulla. Fuori dalla miniera noi crediamo in Dio, che è il nostro salvatore, ma quando entriamo nella miniera le cose cambiano, entriamo nel mondo di Satana. Sotto terra dobbiamo credere in Satana, il diavolo”.

Sono le parole di un minatore, Saturnino Ortega, la cui testimonianza è stata raccolta da Richard Ladkani e Kief Davidson nel film-documentario del 2005 “La mina del Diablo”, i cui protagonisti sono due fratelli di 14 e 12 anni - Basilio e Bernardino Vargas – ma che è la storia di ognuno delle centinaia di bambini impiegati in quelle miniere.

La storia

È proprio Basilio a raccontare al fratello più piccolo la storia del Tio, mentre insieme offrono foglie di coca alla divinità. “Risale all’epoca coloniale – spiega – quando arrivarono gli spagnoli e gli indios pensarono che fossero dèi mandati dal cielo. Non era così. Erano persone cattive che fecero loro del male. Li costrinsero a lavorare nelle miniere per venti ore al giorno, così gli indios si ribellarono. Allora gli spagnoli, che sapevano che gli indios credevano in tutti gli dèi, crearono una statua con corna e coda e dissero loro che quel dio li avrebbe uccisi se non avessero continuato a lavorare. Nella lingua quechua non esiste la consonate “d” e così quel dio con corna e coda divenne per sempre el Tio”.

Al Tio sono riservati anche sacrifici di animali, il cui sangue viene gettato contro l’ingresso della miniera affinché la divinità possa berlo e non pretendere il sangue dei minatori.



Da qualche tempo le miniere hanno aperto anche ai visitatori. Entrarci o meno è una scelta personale, anche etica, ma varcare quella soglia fra la luce e il buio, fermarsi avanti al Tio, infilarsi negli stretti passaggi dalle volte spesso rinforzate solo da pali in legno, parlare con i minatori e condividerne per un attimo la polvere non ha niente di turistico. L'intera economia di Potosí è peraltro collegata alle miniere - mercati, venditori di attrezzature e di foglie di coca, autisti di trasporto pubblico – e anche i visitatori fanno prima una sosta in città per acquistare foglie di coca, alcol, esplosivi, sigarette ed altra merce da consegnare ai minatori.

Nella comunità dei minatori convivono la consapevolezza di una morte precoce, l’orgoglio di rappresentare il sostegno per la propria famiglia e i sogni dei più giovani che lavorano e studiano per lasciarsi alle spalle la polvere delle miniere, trovare un’occupazione in città, vivere la vita cui hanno diritto.

“Il mio sogno sarebbe quello di avere una famiglia in un posto bello, fuori dalla Bolivia – confida Basilio in una delle ultime scene del film – conoscere tutte le città e tutta l’Europa, perché il mio sogno è sempre stato quello di andare nei posti che non conosco” (*).

 (*) Basilio non ha mai lasciato la Bolivia, si è creato una famiglia e ha continuato a lavorare come minatore fino al 2023 quando un brutto incidente lo ha costretto a fermarsi. Oggi si è ripreso e, grazie anche a una raccolta fondi di GoFundMe, ha dichiarato che non tornerà più in miniera.

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