Timbuktu, la cultura ai confini del mondo

Timbuktu, la cultura ai confini del mondo

Donne nelle vie di Timbuktu (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

La leggendaria città africana oggi vittima della guerra

C’è una frase attribuita a Marcel Proust che ricorre spesso quando si parla di viaggi: Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi. Che si sia d’accordo o meno, viene comunque da chiedersi se oggi esistano ancora nuove terre da cercare, luoghi dalla collocazione geografica incerta, capaci di suscitare meraviglia. Nel tempo della connettività totale, in cui ogni angolo di mondo sembra a portata di click e dove l’esperienza è spesso filtrata dal desiderio di ottenere visibilità sui social, è ancora possibile vivere un’esperienza senza filtri? È ancora possibile stupirsi?


Le barche con le quali si raggiunge Timbuktu (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

Da Konna, minuscolo e animatissimo porticciolo al centro del Mali, partono le imbarcazioni dirette a Timbuktu lungo l’antica via fluviale del Niger. Sono le pinasse, sorta di piroghe dal fondo piatto e dalla copertura tonda rivestita di stuoie per proteggere dal sole. Trecento chilometri e circa due giorni di navigazione attraverso villaggi dalla vita incentrata sul fiume. Le acque del Niger dissetano, abbeverano, annaffiano, lavano, trasportano, garantiscono un’abbondante pesca e le sue rive, secondo le stagioni, offrono asilo a tutte le specie di uccelli acquatici dell'Africa occidentale.


La vita nelle strade di Timbuktu (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

La sera la navigazione si interrompe e le tende per la notte vengono montate su tratti di terra emersa, reticoli di spaccature generate dal seccarsi del fango. Nel buio si distinguono le luci dei villaggi da cui giungono belati, muggiti, schiamazzi di bimbi e vociare di adulti, una radio o una tv a volume alto e la voce del muezzin che chiama alla preghiera. L’arrivo e la fine della navigazione colgono di sorpresa. Poco dopo il villaggio di Toya, appollaiato su una duna che piomba sul fiume, ecco le banchine di Korioumè, il porto di Timbuktu.


Uno degli edifici storici di Timbuktu (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

Prima che una città, Timbuktu è un luogo della mente. Sinonimo di posto ai confini del mondo, di città proibita agli stranieri, di carovane del sale e di deserto incombente. Quando i primi esploratori europei cominciarono ad arrivare, il suo antico splendore era ormai un lontano ricordo, ma la sua fama era ancora intatta. René Caillé fu il primo a raggiungere Timbuktu nel 1828 e a sopravvivere per raccontarlo. Gordon Laing, che era arrivato nel 1826, fu ucciso dai tuareg prima di poter ripartire. Ma le cose ora sembrano essere cambiate e la maglietta in vendita al mercato con la scritta I have been to Timbuktu and back sembra essere di buon auspicio.

Di quel passato di ricco centro di scambi commerciali transahariani di oro, sale e schiavi, ma anche di importante centro per la cultura islamica, restano tre storiche moschee, fra le quali la sede dell’antica università, quando la città contava ancora 180 scuole coraniche e 25.000 studenti. La città possiede anche un immenso patrimonio culturale: 700.000 manoscritti arabo-islamici medievali africani conservati in biblioteche private, passati di generazione in generazione fino a raggiungere una concentrazione senza pari in tutta l’Africa.


Scene di vita da un mercato a Timbuktu (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

Il fermento e la ricchezza di un tempo sono oramai svaniti, ma l’atmosfera di città mitica e misteriosa è rimasta invariata. Gli abitanti di Timbuktu sono in prevalenza tuareg, il popolo guerriero del deserto, i fieri uomini blu così chiamati per la sfumatura che assume la loro pelle a causa dell’indaco con cui sono tinti i loro abiti. La città è un dedalo di strade, case costruite in mattoni di fango chiuse da portali intarsiati o borchiati, finestre che celano gli sguardi di chi osserva dall’interno, sabbia onnipresente che attutisce il rumore dei passi, tenace nello strappare terreno alla città, silenzio ovattato spezzato dai richiami alla preghiera.


Il saluto dei bambini che popolano un villaggio sul Niger (cr. Alessandra Coppa iosonospartaco)

Il deserto che avanza è un grosso problema, non certo risolto dall’aver piantato eucalipti a fare da barriera, piante che necessitano di moltissima acqua per sopravvivere. L’acqua è arrivata grazie a un progetto che la raccoglie dal fiume e la incanala, lenta e preziosa, fino alla città. Promotore del progetto lo storico ex leder libico Gheddafi che qui gode di una notevole popolarità. La vita però è ovunque: nel piccolo mercato, nella terrazza sul buio di uno dei pochi ristoranti e, al tramonto, nel campo sportivo dove è in corso una partita di pallacanestro, mentre a fianco i bambini si allenano col pallone da basket accompagnati dalla musica, questa volta occidentale, sparata a tutto volume. Così Timbuktu sembra sospesa fra un inevitabile destino e una voglia di rivalsa, fra l’antico e il moderno, fra la sabbia e l’asfalto. Forse anche questo contribuisce a rafforzare il mito di questa porta del deserto, ancora proibita per chi non può fare a meno di una connessione.

Tutto questo succedeva un paio di anni prima del 2012, quando un colpo di stato e l’offensiva del Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad e degli jiadisti diede inizio ad una guerra, seguita da altri colpi di stato e di fatto ancora in corso. Tutto il paese – spesso chiamato paese del sorriso per la cordialità dei suoi abitanti - è piombato in una grave crisi anche umanitaria e i viaggi, in particolare nelle aree del nord, purtroppo non sono al momento più sicuri.

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