Ascensore per il Paradiso

La facciata della chiesa di San Giovanni (cr. iosonospartaco)
Sotto un prato il cimitero da tutto esaurito
Via Goffredo Mameli. Non poteva mancare a Brescia; dedicare una strada all’autore del Canto degli Italiani era un obbligo per una città risorgimentale. Una via stretta del centro a pochi passi da piazza della Loggia, esempio vivente di come le città siano corpi in evoluzione, materia che cambia anche se non ce ne accorgiamo. A margine del quartiere del Carmine, un tempo il più popolare della città vecchia - dove fino a qualche decennio fa le prostitute esponevano la merce sedute su una sedia impagliata davanti alla porta di casa – e oggi il paradiso dei giovani che amano la vita notturna, via Mameli unisce negozi che hanno fatto la storia del commercio a Brescia e i colori forti delle botteghe di stranieri diventati negozianti per soddisfare la richiesta dei nuovi clienti, cioé immigrati come loro.
La fontana fra via Mameli e Contrada san Giovanni (cr. Wolfgang Moroder Wikimedia commons)
Li trovi a tastare con le mani la consistenza della frutta, a soppesare le verdure da scaffali che sembrano un arcobaleno di colori che si sommano ai vestiti delle donne, sgargianti come una italiana non si sarebbe mai immaginata. Via Mameli sul fondo sbuca sulla direttrice in direzione di Milano dopo aver oltrepassato il monumento equestre a Garibaldi che porta sul marmo l’epigrafe più sintetica del mondo: A Garibaldi. Dedica apposta con l’approvazione del Carducci, e come dare torto al poeta vista la noia retorica di infinite altre intestazioni. Via Mameli insomma con il suo transito di gente di tutte le nazioni e di giovani nei locali potrebbe essere confusa con tante altre strade simili in giro per l’Italia, ma quando sei circa a metà, voltato l’angolo, hai tutte le ragioni per restare stupito.
Voltato l'angolo
L’angolo è all’incrocio con Contrada San Giovanni, stradina che parte stretta e subito si allarga e si fa notare per una fontana racchiusa sotto il balcone dell’appartamento di sopra in una casa restaurata in modo elegante. Voltato l’angolo fai quattro passi e sulla destra trovi una chiesetta in apparenza piccola e dalla facciata per la quale non organizzeresti un viaggio. Invece il viaggio fai bene ad organizzarlo perché dietro la facciata di pietra e di mattoni c’è un mondo.
Per entrare in questo mondo di chiese e cappelle sovrapposte e incastrate l’una nell’altra è meglio passare non dal portale ma da una porticina laterale che immette in un corridoio dal soffitto affrescato fino al retro di un’abside, dove metti i piedi su un prato. Non è un grande spazio, alla fine sono poche decine di metri quadrati. Ma da lì parte l’ascensore per il paradiso.
Particolare del San Gaudenzio da Brescia esposto al museo Poldi Pezzoli (cr. Wikimedia commons)
Siamo ancora in epoca imperiale romana, IV secolo dopo Cristo, e Costantino ha già emanato l’editto che liberalizza il cristianesimo. Brescia ha per vescovo un sant’uomo, Gaudenzio, un Indiana Jones dei suoi tempi: la devozione per le reliquie lo fa viaggiare in Terrasanta dove vuol farne bottino. Al vescovo Gaudenzio si deve la creazione e la consacrazione di una basilica che prende il nome di Concilium Sanctorum in quel tempo fuori dalle mura e il luogo non viene scelto a caso perché proprio lì, sotto il prato che adesso calpestiamo, c’era un cimitero da tutto esaurito, dove i morti si contendevano lo spazio.
L'accesso alla chiesa dal lato dell'abside (cr. iosonospartaco)
Perché? Perché era il luogo dove venivano sepolti i martiri e i confessori, che secondo la teologia dell’epoca alla fine dei tempi sarebbero stati i primi a salire nel regno dei cieli. Chi si aggregava a loro dopo la morte – questa l’idea – avrebbe avuto un accesso rapido e privilegiato al Paradiso. I morti non potevano essere seppelliti nei centri urbani e quindi si cercavano spazi allora periferici, dove poi si andarono a costruire le chiese. Così per il Concilium Sanctorum, dove i morti finirono per essere seppelliti a strati sovrapposti perché di spazio non ce n’era più.
La chiesa non ebbe vita facile, gli Unni la distrussero qualche decennio più tardi e al suo posto venne costruita la chiesa di San Giovanni, detta in foris in quanto esterna al perimetro cittadino. La documentazione sulla costruzione di San Giovanni dopo la distruzione del Concilium Sanctorum non è inappuntabile ma quando la leggenda è più bella della storia tanto vale credere alla prima. I patimenti della chiesa non sono finiti perché in pieno Medioevo (siamo nel 1144) va a fuoco e subito la si ricostruisce, e accanto ha un ospedale detto “della pecora”, ma gli animali c’entrano poco; c’entra il fatto che la pecora sia uno dei simboli iconografici del santo, inteso come il Battista.
Particolare degli affreschi presenti nelle cappelle della chiesa (cr. iosonospartaco)
Con il passare dei secoli la chiesa di San Giovanni più che rimaneggiata viene radicalmente modificata più volte, adattandola agli stili e alle necessità delle epoche. Una prima piccola sorpresa è in una colonna, che mostra una porzione della forma originale in pietra. Un “assaggio” di come doveva essere la chiesa prima dell’adattamento al barocco. Ma a sorprendere è altro.L'altare delle reliquie (cr. iosonospartaco)
Teschi, ossa, busti di santi, piccole parti anatomiche difficili da individuare anche a un occhio esperto; tutto inserito in una imponente cornice di legno che compone l’altare delle reliquie. Il vescovo Gaudenzio ne sarebbe stato orgoglioso, anche perché alcune delle reliquie provengono proprio dal suo corpo, e altre da quello di san Teofilo vescovo di Antiochia, e da santa Silvia, nobile romana madre di papa Gregorio I. Non ci sono solo loro, ci sono anche reliquie di tre santi detti gli “ananuensi”, aggettivo che non si trova sul vocabolario ma che gli addetti a cose di santi sanno che sta per “della Val di Non”, in Trentino. Si chiamavano Sisinio, Martirio e Alessandro e venivano dall’Oriente, praticavano una vita ritirata e con l’esempio portarono alla conversione al cristianesimo numerosi abitanti di una zona ancora dedita al paganesimo. Nell’anno 397 pagarono con la vita – due furono ammazzati e poi bruciati, il terzo venne gettato nelle fiamme ancora vivo – per avere difeso un valligiano che si rifiutava di donare una delle sue bestie in offerta al dio Saturno. Il vescovo di Trento, Vigilio, spedì reliquie di quello che restava di loro a varie chiese, fra le quali quella di Brescia come riferì lo stesso vescovo Gaudenzio in una predica. La Madonna del Tabarrino attribuita al Moroni (cr. iosonospartaco)
Ma non è finita qui perché l’aver voltato l’angolo permette un’altra scoperta, una cappella dedicata alla Madonna del tabarrino. Nome singolare da prendere alla lettera, non c’è bisogno di alcuna interpretazione teologica. Incorporata in una massiccia cornice di marmo, la Madonna del tabarrino è un dipinto a lungo attribuito al Moretto, vera stella della pittura bresciana del 500, ma che probabilmente è opera giovanile di un suo allievo, Moroni, esperto di ritratti.
Nella Brescia di un tempo si riteneva che questa Madonna avesse il potere di donare la pioggia in caso di siccità, e la si portava in processione sperando che il cielo si annuvolasse. Tale era la fiducia nell’immagine della Madonna che i bresciani andavano in processione già portando con sé il tabarro, perché certamente sarebbe arrivata la pioggia. Nell’incapacità dell’uomo di oggi di proteggere il proprio ambiente, dovremmo dare retta a chi ci ha preceduto e portare di nuovo in processione la Madonna del tabarrino, non per la pioggia ma perché ci protegga dalle nostre scelte sconsiderate. Mai come oggi abbiamo bisogno di miracoli.
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