La dolce vita di una Roma pagana
Marcello Mastroianni e Anita Ekberg, inquadratura simbolo de "La dolce vita" (Wikimedia commons)
Fellini, inesausta memoria dai Vitelloni agli anni 60
Alla fine il più giovane dei vitelloni parte. Non sa, Moraldo, dove andrà. Sa solo che deve partire, lasciare il borgo di provincia. Presentando il film a un cineforum dieci anni dopo l’uscita, un prete ammonì l’uditorio: «Nell’ultima inquadratura il ragazzo ferroviere, dopo aver salutato l’amico più grande, gioca all’equilibrista sui binari: tiene le braccia aperte, dondolanti, e in una mano ha una lucerna… però spenta».

Una scena da "I vitelloni", 1953 (cr. Errix Wikimedia commons)
Trovai quelle ultime parole di richiamo simbolicamente forzate, ma il prete aggiunse: «Fellini è un relativista; non è vero che la Ciangottini, nel finale della Dolce vita alluda alla purezza, come hanno detto e scritto in diversi; come non è autentica, sempre nella Dolce vita, l’emozione per il “miracolo”. Fellini si innamora dei problemi senza curarsi della soluzione… un relativista e, in ultima istanza, un materialista». Fu molto perentorio, il prete, ma al fondo, per certe verità del grande riminese, sincero e, “di contrario”, dissacrante.

Fellini con Flaiano e Anita Ekberg durante la lavorazione de "La dolce vita", 1960 (cr. archivio Gazzetta del Popolo Wikimedia commons)
Moraldo parte all’alba con un treno che sbuffa carbone, Marcello arriverà sulla capitale, sei anni dopo, a volo di elicottero. E, nel momento in cui l’Italia cattolica è invasa dalla quotidiana “laicità” indotta dal boom economico, Fellini attesta sinteticamente uno degli aspetti più miserabili e affascinanti di Roma. L’elicottero arriva dai ruderi degli acquedotti antichi e si approssima alla cupola di San Pietro dopo essere stato allegramente salutato da ragazze e signore in bikini che stavano prendendo il sole su una terrazza.
Mastroianni con Fellini e Anouk Aimée (Wikimedia commons)
L’elicottero trasporta, appesa sotto, una statua di Cristo con le braccia accoglienti, ma lo stacco di montaggio, a contrasto, mostra subito dopo un locale notturno dove un balletto “orientale” rappresenta un altro mondo. Ecco la Roma che Fellini scopre e continuerà a scoprire: una città dalle mille chiese, ma piuttosto pagana (come i ruderi sorvolati poco prima dall’elicottero), cosmopolita fra immutabili penombre ecclesiastiche, poliglotta di contrasto con i beceri accenti popolani, tollerante per necessità, pigrizia, e inveterato cinismo.

Federico Fellini e Anita Ekberg (Wikimedia commons)
La dolce vita, sappiamo, diede luogo a rivelazioni di costume, a vere e talvolta scurrili controversie. Sdegno nella Chiesa e nelle parrocchie – lo striscione appeso su una facciata invitava a pregare per Fellini, e ci furono manifestazioni, e una signora all’uscita di un cinema sputò in faccia al regista – ma al tempo stesso contemplazione del mistero umano che ancora oggi si avverte.
Ha stupito che Fellini, oltre a maghi, sensitivi e psicoanalisti junghiani, si accompagnasse sovente a un padre gesuita, Angelo Arpa, e stupì ancora di più che nel clima appena richiamato La dolce vita avesse ottenuto l’approvazione del cardinale Siri di Genova - prelato conservatore già in corsa per la successione a Pio XII – che si era spinto a definire il film come altamente morale.

Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella scena della fontana (Wikimedia commons)
Per la sua struttura a diffusione, cioè non basata sull’intreccio, si diceva che La dolce vita fosse un affresco; ma forse, più che affresco è una superficie a brani, cioè simile al tableau di un cantastorie. Vicende in certo modo separate, una dialettica di fenomeni malinconica e commossa; la vita quotidiana di un provinciale inevitabilmente distratto, che non risolve la sorpresa (anche crudele) della grande città. Una esperienza artistica, quella dell’autore, che riflette allegoricamente il costume nazionale.
Come dimenticare il brano di Divorzio all’italiana (Germi, 1962) dove gli abitanti del paese siciliano si portano le sedie da casa per affollare il cinema; e Buzzanca, preso dalla prorompente, barocca sensualità di Anita Ekberg, che vorrebbe consolare la fidanzata dicendo: «Solo esteriorità…»?

Via Veneto ricostruita in interni (cr. archivio Cicconi Wikimedia commons)
Interlenghi-Moraldo partiva nella totale incertezza di sé e dei propri desideri, Mastroianni-Marcello fa il cronista mondano (di rotocalchi come Lo specchio, forse) e vorrebbe essere uno scrittore. Ma lo diventerà solo qualche anno dopo nella Notte, film di un altro maestro: Michelangelo Antonioni.
La malinconia di Marcello, il suo sguardo di uomo attivissimo e deluso, filtra ogni quadro, contempla una città che assorbe scompostamente la “modernità obbligatoria” del boom e, al tempo stesso, coglie il sacro – come spirituale disillusione - oltre i disagi conservatori e la denuncia: «La Dolce vita – scrisse il gesuita sopra ricordato – è visione di Roma degli anni ’60, che nella esuberante femminilità delle divine del cinema aveva riscoperto una sua antica grandezza, e la ricomposta omertà fra i poteri del sangue e dello spirito…».

La targa dedicata a Fellini in via Veneto (cr. Peter Clark Wikimedia commons)
Opera davvero grandiosa, sorta da amicali e maschili conversazioni sulla spiaggia di Fregene – ovviamente notevole, anzi fondamentale il contributo di Ennio Flaiano – e lancio nei “quartieri alti” della cinematografia italiana, un Mastroianni intimidito al punto di farsi accompagnare – appunto a Fregene – da un avvocato.

La dolce vita in tedesco proposta in un cinema di Monaco (cr. Villy Pragher Wikimedia commons)
La dolce vita resta il film di Fellini che preferisco, benché Otto e mezzo si trovi a una minima distanza. Opera di modernità poetica che lo stesso Fellini cercò di comprendere in una famosa intervista: «…I richiami che qualcuno ha fatto, a Grosz o a Goya addirittura, mi paiono astratti. Se proprio bisogna fare questi paragoni illustri, allora direi Giovenale. Cioè un classico dove anche la satira è sempre trasfigurata dal viso gioioso della vita: da giocoliere, da mago che ama la vita perché la vita non è solamente quella che viviamo coi sensi. Mi sembra sia talmente ovvio questo: la trasparenza che c’è in ogni oggetto, in ogni faccia, in ogni figura, in ogni paesaggio. E’ questo che ho tentato di dire, pur raccontando un film che è tutto un panorama di rovine. Su queste rovine, però, c’è una luce così fastosa, così festosa e così dorata che la vita è dolce, è dolce lo stesso anche se le macerie crollano, ti ingombrano il cammino…».
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