Le nozze d'oro di “Amici miei”

Il cast di Amici miei: Celi, Del Prete, Moschin, Noiret e Tognazzi (cr. Monicelli Kuveiller Wikimedia commons)
Il film mito di Monicelli compie mezzo secolo
L’anno di uscita 1975 accomuna due film che hanno lasciato tracce nella nostra cultura: “Fantozzi”, di Luciano Salce con Paolo Villaggio, e “Amici miei” di Mario Monicelli con un cast di potenti attori. Le due pellicole hanno in comune anche l’essere fatte di episodi animati da un umorismo sbruffone e dissacrante, molti dei quali divenuti aneddotici, con battute e dialoghi ancora vivi nelle nostre conversazioni.
La vecchia signora
Il soggetto di “Amici miei” fu del grandissimo Pietro Germi che curò anche la sceneggiatura, non riuscendo purtroppo a realizzare il film per la malattia che lo portò alla morte. La regia fu affidata dunque a Monicelli, poi premiato con il David di Donatello, il quale scelse per le parti dei protagonisti Philippe Noiret, Ugo Tognazzi (David come miglior attore), Gastone Moschin, Adolfo Celi e il multiforme Duilio Del Prete qui un po’ in ombra.
Una scena da Amici miei, 1975 (cr. Monicelli Kuveiller Wikimedia commons)
Il film appare non perfetto dal punto di vista dell’armonia narrativa (dilatato l’episodio della beffa al sordido Righi), ma è coinvolgente la sua atmosfera goliardica e scanzonata, condita di malinconia del vivere. L’amicizia, o meglio il cameratismo che cementa il gruppo dei protagonisti si nutre del gioco e del prendersi gioco: è così che si vince la paura della solitudine e si dimostra a se stessi di essere (e di “esserci”) tenendo lontana la vecchia signora.
Vecchia signora che si presenta tuttavia, alla fine, togliendo un componente al gruppo senza minare però la (presunta) capacità dei sopravvissuti di affrontarla sempre a viso aperto e con un sorriso sardonico sul volto.
I “miei” amici
L’ambientazione psicologica è stabilita sin dai primi fotogrammi. Il giornalista Perozzi (Noiret), che è anche il narratore, esce dal giornale al mattino presto in una Firenze ancora addormentata, accompagnato dallo struggente tema musicale di Carlo Rustichelli, compositore abituale di Germi. Perché andare a dormire? Perché tornare a casa e stare da solo, o peggio affrontare i “Babbo, ma quando cresci…!” del serioso figlio convivente? Perché invece non puntare all’esagerazione e andare a svegliare un amico per organizzare qualcosa?
Moschin e Noiret in una scena del film (cr. Monicelli Kuveiller Wikimedia commons)
Come il Perozzi, anche gli altri amici sono uomini di mezza età: il Conte Mascetti (Tognazzi), nobile decaduto, che vive in uno scantinato a spese degli altri e fugge non solo la miseria ma anche, cinicamente, quello che la miseria produce nella moglie e nel figlio; il Melandri (Moschin), architetto dai facili innamoramenti che preferisce gli amici alle Commissioni edilizie; il Necchi (Del Prete), il più inserito socialmente essendo titolare di un bar (punto di ritrovo del gruppo) e… di un matrimonio funzionante; il Prof. Sassaroli (Celi), il grande chirurgo che non ti aspetteresti, ultimo a essere coinvolto dagli amici, conosciuti in occasione di un ricovero collettivo nella sua clinica.
La zingarata
Quando l’occasione si presta, quando arriva una proposta valida, è il caso di abbandonare tutto, lavoro e famiglia, per unirsi agli amici in una delle tante scorribande, per intentare uno scherzo cattivo (meglio nei confronti di qualcuno che se lo merita) o solo per stare insieme. E’ il caso insomma di fare una “zingarata”. E’ lo stesso Perozzi a darcene la definizione: “una partenza senza meta e senza scopi, un’evasione senza programmi, che può durare un giorno, due, o una settimana”. La parola chiave è “evasione”. Da cosa, se non da tutto quello che non è “zingarata”? E per darle l’avvio o per superare ostacoli o inconvenienti ci vuole anche il “genio”, che è “fantasia, intuizione, decisione, velocità di esecuzione”.
Tognazzi, Moschin, Del Prete e Noiret preparano una zingarata (cr. Monicelli Kuveiller Wikimedia commons)
La più famosa “zingarata” è senza dubbio quella che prevede di presentarsi in una stazione ferroviaria, individuare un treno in partenza con passeggeri affacciati ai finestrini e correre lungo i vagoni schiaffeggiandoli tutti. Memorabile anche l’arrivo del gruppo sulla piazza di un piccolo paese con mappe e teodoliti fingendo di scegliere le case da buttare giù per il passaggio dell’autostrada, gettando nel panico gli abitanti. “Come si sta bene fra noi, fra uomini!”.
La supercazzola
Altra trovata del film, non è chiaro se di Tognazzi stesso, è la cosiddetta “Supercazzola”, sorta di turpiloquio criptico con cui il Conte Mascetti confonde o denigra l’interlocutore scatenando l’ilarità (trattenuta) dei sodali.
Gli amici al tavolo del bar (cr. Monicelli Kuveiller Wikimedia commons)
Al vigile che sta per elevare una contravvenzione: “Tarapìa tapioco, prematurata la supercazzola o scherziamo? Come se foss’antani!”. Alla suora centralinista: “Dei tre telefoni, qual è come se fosse tarapìa tapioco che avverto la supercazzola?”. E anche l’ultima parola pronunciata dal Perozzi sul letto di morte è proprio questa, non tanto per prendersi gioco del sacerdote che elargisce l’estrema benedizione quanto per sopraffare, annichilire la vecchia signora che sì, fa il suo lavoro, ma non potrà far niente contro l’energia vitale dell’amicizia e dello spirito goliardico.
La goliardia
Goliardia è un termine medievale attinente al mangiare (abbondantemente) insieme agli amici. Lo spirito goliardico non può quindi prescindere dalla compagnia, dall’eccesso e dalla spensieratezza, ed è nato nel mondo clericale e studentesco, fatto di persone colte e capaci di apprezzare i piaceri della vita con gusto e ricchezza di sensazioni. E non sono proprio così gli amici… “nostri”?
Carmina Burana, i giocatori, miniatura dal foglio 91 del Codex Buranus (Wikimedia commons)
Michi cordis gravitas res videtur gravis
Iocus est amabilis dulciorque favis
La pesantezza del cuore mi fa vedere tutto pesante
Invece lo scherzo è piacevole, più dolce del miele
Carmina Burana, 191
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