Redford, il pių politico dei divi

Robert Redford e Paul Newman ne "La stangata" di George Roy Hill, 1973 (pagina Facebook Timothy Sykes)
Nei suoi film il disincanto sull’uso del potere
Iosonospartaco traccia un'analisi della figura e del lavoro dell'attore e regista Robert Redford, due volte premio Oscar, morto il 16 settembre a 89 anni.
Svaligiare una banca senza l’uso di armi, senza vittime o ostaggi, di giorno, e riuscire nell’impresa, non è facile. Qualcuno c’è riuscito: Forrest Tucker, passato alla storia come ladro gentiluomo. Uomo distinto, fino a 79 anni amava presentarsi agli sportelli bancari con una pistola nella giacca, in modo che fosse visibile, senza mai minacciarne l’uso, come se il ricorso alla violenza fosse segno di dilettantismo.
La sua non era una necessità ma una passione, insolita quanto adrenalinica, perfetta per mantenersi in forma a una certa età.
Apparsa per la prima volta nel 2003 sul New Yorker, 15 anni dopo la storia del ladro non violento è stata trasformata da David Lowery in "Old Man and the Gun". Il film ha il sapore di un congedo, con Robert Redford che presta il volto a Tucker nel suo ultimo ruolo da protagonista.
Redford e Sissy Spacek in "Old man and the Gun" di David Lowery, 2018
Oggi di Redford si celebra un’articolata eredità, cinematografica e civile. La prima è storia e si basa su pellicole come "La Stangata", commedia gangster sulle note di Scott Joplin; "Il Grande Gatsby", tra le righe di Scott Fitzgerald e i costumi di Ralph Lauren; "La mia Africa", basato sulle memorie di Karen Blixen; "All is Lost", avventura tra le tempeste dell’Oceano Indiano.
L’eredità civile invece è soprattutto politica. Come l’amico/mentore Paul Newman, Redford era un liberal vecchio stampo: patriota non nazionalista; ambientalista; libertario sui diritti civili; fedele alla Costituzione e critico degli usi impropri del potere.
Redford e Meryl Streep in "La mia Africa" di Sydney Pollack, 1985 (dalla pagina Facebook Antonio Ligorio)
Di conseguenza, forte di questo bagaglio valoriale, Redford è stato, negli ultimi 50 anni, uno dei volti più noti del cinema politico moderno. A differenza dei film politico/biografici che, spesso, cadono nell’affascinante quanto pericolosa Teoria del Grande Uomo, in base alla quale individui eccezionali fanno cose strepitose perché dotati di caratteristiche personali sublimi ("Napoleon" di Ridley Scott), il cinema tende a considerare il contesto e a spiegare come questo influenza le scelte dei politici, portando sullo schermo eventi reali o plausibili.
James Stewart e Claude Rains in "Mr Smith va a Washington" di Frank Capra, 1939 (cr. Columbia Pictures Wikimedia commons)
Un esempio classico è "Mr Smith va a Washington", film diretto da Frank Capra e interpretato da James Stewart, nella parte di un giovane deputato tutto sincerità, buoni propositi, tenacia e fiducia non nello status quo ma nelle istituzioni.
Con gli anni ‘70 questa visione, forse un po’ ingenua, tramonta e Robert Redford guida la transizione verso una prospettiva di realismo distaccato. Il senso di disillusione e scetticismo nei confronti delle istituzioni e dei suoi rappresentanti, almeno in America, è dovuto al Vietnam, alla controcultura e al Watergate, l’affaire politico più noto del XX secolo. Ed è proprio grazie al Watergate che la carriera di Redford viene proiettata verso l’olimpo del cinema.
Robert Redford e Dustin Hoffman in "Tutti gli uomini del presidente" di Alan Pakula, 1976 (pagina Facebook Doctor Cinema)
Il 4 aprile 1976, a Washington DC, si tiene la première di "Tutti gli uomini del Presidente". La pellicola di Alan Pakula raccoglie i pezzi dell’amministrazione Nixon, cercando di ricostruirne la caduta, provocata da quella che Kissinger, sotto un profilo gestionale, ha definito la tragedia Watergate.
Il film ha tutti gli elementi essenziali del thriller investigativo: due giornalisti del Washington Post come protagonisti, Carl Bernstein e Bob Woodward; un’indagine su un furto con scasso alla Convenzione Democratica, presso l’Hotel Watergate; uno scandalo politico che, come una slavina, travolge un presidente con la sua eredità politica. La pellicola traccia il profilo di un’America moralmente compromessa e l’interpretazione di Redford e Dustin Hoffman nei panni dei giornalisti è magistrale.
Redford in "Il candidato" di Michael Ritchie, 1972 (da X Paul Blundell)
Altra pietra miliare è "Il Candidato", film satirico sulle campagne elettorali nel quale Redford veste i panni di Bill McKay. Outsider dell’arena politica, il giovane si mette in gioco per un seggio senatoriale in California, con una piattaforma elettorale idealista. L'eloquenza appassionata conquista l'elettorato, Bill diventa un leader carismatico ma cade in un meccanismo perverso: la mercificazione della sua immagine si associa ad una crescente riduzione del contenuto politico.
Con una dinamica che oggi definiremmo di mediatizzazione della politica, l’immagine vince sulla sostanza, il giovane idealista deve presentarsi come un prodotto da supermercato da vendere all’elettorato: l’onestà intellettuale passa in secondo piano rispetto alla necessità di apparire vincente ed eleggibile.
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