I dazi non li ha inventati lui

Il presidente Donald Trump nel 2018 (cr. Gage Skidmore Wikimedia commons)
Prima di Trump il “presidente-tariffa” McKinley
Dal 1789 ad oggi, nella storia degli Stati Uniti d’America, ci sono stati presidenti più o meno fortunati. Non mi riferisco alla sola fortuna politica, ma alla fortuna vitale nel senso tecnico dell’aggettivo. Ad esempio: il presidente Garfield fu sfortunatissimo. Nel 1881 si beccò una pallottola che lo spedì al creatore e oggi è decisamente surclassato in fama dall'omonimo gatto.
Lincoln e Kennedy, politici fenomenali, non vinsero alla lotteria della vita. Un pazzoide infatuato di Jodie Foster sparò a Reagan, che sopravvisse, nella speranza di attirare l’attenzione dell’attrice.
L'attentato a Reagan, 30 marzo 1981 (cr. Michael Evans Wikimedia commons)
Nella lista di presidenti vittime di attacchi violenti figurano anche William McKinley, venticinquesimo Commander in Chief, e Donald Trump, attuale inquilino della Casa Bianca. A McKinley andò male, tant’è che nel 1901 morì per le ferite di un attentato; Trump, centoventitrè anni dopo, è uscito quasi illeso dai colpi di un fucile semiautomatico AR-15. Tra i due tuttavia esiste un legame che va oltre gli eventi di cronaca e, almeno nella retorica dell’attuale Mr. President, assume caratteristiche di passaggio del testimone, ossia di eredità politica. Perché?
William McKinley, repubblicano, divenne presidente nel 1896 ed è passato alla storia per la guerra alla Spagna su Cuba nel 1898 e le politiche tariffarie. Lo sforzo bellico per sostenere gli indipendentisti cubani contro Madrid venne presentato come la prima guerra umanitaria. Il sensazionalismo dei giornali di William Randolph Hearst e Joseph Pulitzer, nel descrivere la brutalità del colonialismo spagnolo, contribuì a creare l’immagine degli Stati Uniti come Crusader (crociati) a difesa delle vittime di soprusi.
La guerra durò poco meno di tre mesi e si concluse nel dicembre 1898 con la firma del Trattato di Parigi, in base al quale Cuba divenne indipendente ma protettorato di Washington. Mentre la Corona spagnola perdeva pezzi, gli Stati Uniti diventavano Impero tra gli imperi, anche se piccoli e diversi rispetto ai cugini europei.
Manifesto per la campagna elettorale di McKinley (Wikimedia commons)
Dopodiché le politiche tariffarie, che rappresentano il nocciolo della fascinazione di Trump nei confronti di McKinley. Fascinazione che ha letteralmente raggiunto vette altissime, dal momento che Trump, con un ordine esecutivo, ha deciso di ripristinare il toponimo tradizionale, McKinley, per la montagna più alta del nord-america, il Denali, che con i suoi 6.190 metri svetta sull’Alaska.
Anche in questa scelta Trump si è dimostrato il presidente più dadaista della storia americana: a chi dedicare una montagna? Al padre della patria Washington? Al filosofo-presidente Jefferson? All’eroe dell’antischiavismo Lincoln? No, ad un presidente con l’acqua alla gola tra la serie A e la serie B, significativo ma caduto nel dimenticatoio della storia.
Trump ama chiamare McKinley “The Tariff King”, per gli amici l’Uomo Tariffa che, con politiche commerciali massicciamente protezioniste, avrebbe reso gli Stati Uniti ricchissimi. Ma cosa ci dice la storia? E’ vero, all’epoca di McKinley le tariffe medie americane sui beni d’importazione si aggiravano al 52%.La battaglia di Gettysburg, episodio chiave della guerra civile (cr. Edwards e Ives Wikimedia commons)
Ed è anche vera la potente espansione economica di fine secolo che permise agli Stati Uniti di arrivare al 1900 in condizioni radicalmente diverse rispetto all’inizio della Guerra Civile, quarant’anni prima. Tuttavia quelli furono anche anni di fenomenali progressi tecnologici, per cui la maggiore disponibilità di elettricità, di telecomunicazioni e di ferrovie contribuirono moltissimo all'industrializzazione.
All’epoca il volano tecnologico, unito al flusso relativamente libero di immigrati nel paese, delineò una condizione di grande disponibilità di capitale, manodopera e risorse, tale da rendere marginale l’impatto delle tariffe sulla ricchezza della nazione. Le tariffe avevano un'altra funzione, ossia finanziare la spesa federale che a fine secolo era al 3% del Pil: il governo era piccolo, l’esercito pure, non c’era stato sociale e quindi, oltre alle tasse sul tabacco e alcool, le principali entrate fiscali erano rappresentate dalle tariffe. Condizione irripetibile oggi, a meno che Trump non abbia come obiettivo quello di trasformare gli Stati Uniti in un’economia semi-autarchica in cui i consumatori di Marlboro e Kentucky Bourbon devono nascondersi in cantina.
A sentire certe sue dichiarazioni, spesso riformulate con creative proposte di negoziato, il dubbio potrebbe venire: ciò che tuttavia Trump finge di ignorare è sia la contingenza storica della presidenza McKinley sia che proprio quest’ultimo all’inizio del secondo mandato si tolse la corona da Tariff King, affermando la sterilità delle guerre commerciali e rifiutando l’idea secondo cui uno stato per essere ricco deve vendere tutto a tutti e comprare niente da nessuno.Karl Marx nel 1875 (cr. John Jabez Edwin Mayall Wikimedia commons)
Il dato realmente dadaista è che, oggi, i più grandi scossoni all’ordine economico internazionale non vengono da rigorosissimi lettori di Marx, ma da un miliardario americano prestato alla politica, il rinato Uomo Tariffa, che ama il verde del dollaro tanto quanto l’arancione del fondotinta.
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