Lavori troppo? Chiedi a Calvino

Una lavoratrice addetta al contatto con il pubblico (Wikimedia commons)
Capitalismo e religione spiegati da Weber
Ho sempre avuto la tendenza a ricercare una spiegazione dietro a ogni fatto, cosa, circostanza. E questo un po’ di problemi me li ha portati - il pensare troppo, l’analizzare eccessivamente - anche perché, come ho avuto modo di constatare nella mia esperienza di vita, a volte le cose stanno così e basta. Non c’è una spiegazione profonda, o se c’è, è più semplice di quanto immaginiamo.
Questi sono giorni pieni di lavoro: stiamo organizzando, con l’azienda per la quale lavoro, un evento e nella mia mania di perfezione non voglio lasciare nulla al caso. Ma proprio in questi momenti di intensità mi capita di sentire discussioni sul rapporto che abbiamo con il lavoro: le 40 ore settimanali, l’equilibrio vita-lavoro, la sensazione che la vita si riduca a una routine lavoro-casa-sonno. Riflessioni che sento ovunque, in forme diverse.
Mi sono chiesta: come siamo arrivati a vivere il lavoro in questo modo? Qual è l’origine culturale di questa centralità del lavoro nelle nostre vite?Il sociologo Max Weber nel 1917 (cr. Alfred Bischoff Wikimedia commons)
Sono riandata ai tempi del liceo classico, quando studiammo Max Weber e il suo saggio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, scritto all'inizio del Novecento.
Weber, sociologo tedesco, si chiedeva come mai il capitalismo moderno fosse nato proprio in Occidente e non altrove. La sua risposta? La mentalità religiosa protestante, soprattutto quella calvinista, ha creato le basi culturali per il capitalismo che conosciamo oggi.
Ecco il punto centrale: nel protestantesimo, soprattutto nella versione di Giovanni Calvino, il lavoro non è più solo un mezzo per sopravvivere. Diventa una vera vocazione religiosa - quello che i tedeschi chiamano “Beruf”, che significa sia “lavoro” sia “chiamata divina”.
Calvino in un ritratto di autore ignoto conservato al Museum Catharijneconvent di Utrecht (Wikimedia commons)
È Dio stesso che ci chiama al lavoro. E il successo economico, la ricchezza che ne deriva, diventano il segno visibile della grazia divina, la prova che si è tra gli eletti, i predestinati alla salvezza.
Una rivoluzione mentale incredibile: mentre nel cattolicesimo medievale il povero rappresentava Cristo ed era strumento di redenzione, nel calvinismo la povertà diventa segno di disgrazia divina. Il lavoro stesso acquisisce valore morale intrinseco - si lavora per il lavoro stesso, non per i piaceri che può procurare. Il profitto va reinvestito, sempre e comunque.
Questa mentalità si è poi secolarizzata - cioè ha perso la componente religiosa - ma è rimasta profondamente radicata nella nostra cultura occidentale. Ed eccoci qui, nel 2025, ancora convinti che il nostro valore si misuri in ore lavorate e risultati raggiunti.
Operaia al lavoro in una industria meccanica, 1942 (cr. Howard R. Hollem Wikimedia commons)
Il lavoro è diventato fonte di identità, di valore personale, di realizzazione. Quante volte ci presentiamo dicendo prima di tutto che lavoro facciamo? Quante volte misuriamo il nostro successo in base alla carriera?
Weber parla di “ascesi intramondana”: il calvinista, nonostante la ricchezza, mostrava un aspetto dimesso e praticava una sorta di rinuncia in pubblico, pur godendo nel privato di soddisfazioni terrene. Non ricorda qualcosa della nostra vita moderna? Lavoriamo intensamente, accumuliamo, ma spesso ci sentiamo in colpa se ci godiamo troppo i frutti del nostro lavoro.
Weber aveva ragione su tutto? Non lo so. Dovremmo smettere di lavorare? Non credo. Ma forse capire da dove vengono certe nostre convinzioni può aiutarci a viverle con più consapevolezza.
A volte le cose stanno così e basta. Ma conoscere il “perché” può aiutarci a decidere se vogliamo che continuino a stare così.
Riproduzione riservata