Fine vita: “Un diritto”

Fine vita: “Un diritto”

L'assistenza sanitaria e affettiva a un paziente anziano (Facebook Wrightington Wigan and Leigh Foundation Trust)

L’esperienza di un medico di fronte alla malattia  

I due recenti casi di suicidio assistito hanno reso ancora più attuale il dibattito nel nostro Paese su questa pratica. Iosonospartaco pubblica oggi l'intervento di Tiziano Ferretti, che si esprime sulla base della sua pluridecennale esperienza di medico

Il primo caso di morte volontaria assistita in Italia si è verificato il 17 maggio 2025. Daniele, 64 anni, da quindici affetto da una forma grave e progressiva di morbo di Parkinson, ha posto termine alla sua sofferenza, dopo un iter giudiziario, civile e penale durato due anni dalla sua richiesta alla Asl, e dopo l’opposizione del governo Meloni.

A febbraio, la Regione Toscana aveva introdotto una legge denominata “Liberi Subito”, facendo seguito alla sentenza 242/19 della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato illegittimo il divieto alla morte volontaria assistita, in presenza di ben determinate circostanze tra cui il requisito essenziale del trattamento di sostegno vitale.

Daniele ha salutato affettuosamente i familiari e le badanti che lo avevano accudito, li ha consolati dicendosi finalmente sollevato da un peso non più sostenibile, e ha ringraziato le due dottoresse e il medico legale della Asl presenti. Dopo l’interruzione della nutrizione artificiale e l’attivazione del dispositivo a doppia pompa infusiva, sono bastati meno di tre minuti affinché il farmaco letale, autosomministrato, concludesse la sua esistenza.

Il secondo caso

Lunedì 21 luglio, dopo oltre 25 anni di malattia ormai non più curabile (Sclerosi multipla), conclusasi con una paralisi quasi completa, anche Laura Santi, giornalista umbra di 50 anni e consigliera generale dell’Associazione Luca Coscioni, è morta allo stesso modo nella sua casa di Perugia.

Tre anni di lotta, due denunce, due diffide, un ricorso d’urgenza, un reclamo nei confronti della Asl e, infine, l’annuncio della sua decisione di andare in Svizzera, dopo aver denunciato “l’inerzia” della Regione che la stava esponendo, a suo dire, a un vero e proprio calvario che si aggiungeva a quello quotidiano.


Una infermiera manovra un regolatore di flusso (cr. Navy Medicine United States Wikimedia commons)

In assenza di una legge nazionale sul fine vita, il ricorso al suicidio assistito è diventato legale grazie alla storica sentenza della Corte Costituzionale del 2019. Dopo anni di iniziative, appelli, disobbedienze civili e ostracismi da parte delle Asl, hanno cominciato a legiferare alcune Regioni.

È un tema paradossalmente conflittuale, perché in maggioranza risultiamo concordi nel preferire di decidere in autonomia sul nostro fine vita, piuttosto che lasciare la decisione a degli estranei. Nonostante questa quasi unanimità di sentimento, qualcuno pretende di decidere anche sul fine vita di altri. Nessuno impedisce a qualcuno, se lo vuole, di sopportare stoicamente sofferenze estreme dedicandole, per esempio, alla espiazione dei propri peccati.

La natura

La prima obiezione contro la sentenza della Corte è: “La natura deve fare il suo corso”. Allora perché è nata la medicina? Sin dai tempi più remoti questa ha cercato di modificare il corso della natura, spesso non riuscendo, per curare malattie e allungare la vita. L’atto di rivolgersi a un medico o a una struttura sanitaria è, di per sé, un’azione contro il “corso della natura.”

Un’altra obiezione: “Esistono le cure palliative”. Per decenni, ne sono testimone diretto dato il mio lungo impegno professionale, sono state osteggiate da chi vedeva il dolore come necessario al compimento del volere divino. Oggi, per lo più accettate, non sono disponibili in modo omogeneo in Italia, e sono considerate la cenerentola della medicina.


L'assistenza sanitaria è fatta anche di affetti e vicinanza (Facebook Central Oregon Parkinson's support group)

Inoltre, non sempre sono efficaci contro il dolore fisico e, soprattutto, contro le sofferenze psichiche e morali associate alla perdita dell’autonomia e della dignità personale. Un’obiezione ulteriore: “C’è il rischio di una deriva pericolosa”: una presunta estensione a coloro che non sono in grado di intendere e di volere, o ai bambini. È un rischio solo teorico, stante le rigorosissime condizioni contemplate dalla legge e dalle linee-guida della medicina palliativa.

La fede

Rimane, a coloro che si oppongono al diritto di scelta individuale sul fine vita, l’argomento ideologico-religioso, non ammesso esplicitamente per non incorrere in accuse di teocrazia: la volontà di Dio. Uno stato laico, civile e democratico, può basare le sue leggi su una fede, o si deve basare sull’uguaglianza nella libertà di scelta?

La scelta sul proprio fine vita non è, e non sarà mai, una decisione del medico o di chicchessia, ma un diritto individuale garantito dalla Costituzione, al riparo da qualsiasi maggioranza parlamentare o regime dittatoriale, tale e quale il sacrosanto diritto di libertà religiosa.

Qualcuno agita, strumentalmente, il timore che si possano sopprimere persone inconsapevoli o fragili. La sentenza lo impedisce in modo inequivocabile.

Viene richiamata una inquietante similitudine con Sparta, i cui neonati con difetti fisici si racconta fossero abbandonati sul monte Taigeto: forse più di una leggenda anche se mancano conferme storiche.


Un'attrezzatura per la respirazione extracorporea (cr. Lackland Air Force Base Wikimedia commons)

Un’obiezione ulteriore: “La vita è un dono di Dio”: ma chi riceve un dono ne diviene il proprietario. E poi: siamo obbligati ad accettarlo? Se non può essere rifiutato non è un dono ma un’imposizione e, per alcuni, una ingiusta condanna.

L’assistenza ad una morte volontaria dovrebbe, in alcune precise e inderogabili condizioni, come nei casi di Daniele e di Laura, essere garantita dallo Stato, anche per evitare accuse di interessi economici da parte di cliniche private, non solo svizzere.

Ripensamenti?

Il rischio per lo Stato e per i medici, di diventare “fautori di volontà temporanee di suicidio”, è solo teorico. Non si tratta del suicida che, durante la caduta dal sesto piano, si pente tardivamente del proprio gesto, ma di un individuo da anni in balìa di una situazione clinica insostenibile anche con le cure palliative più solerti.

Infine, il termine “obiezione di coscienza” dovrebbe essere sostituito con “privilegio di coscienza”, per i medici che rifiutassero l’applicazione di una legge che regola un diritto e un servizio ai cittadini, se applicato al suicidio assistito, perché non espone l’obiettore a conseguenze penali, come accadeva un tempo agli obiettori al servizio militare.

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