Cara pianura, ti scrivo

Cara pianura, ti scrivo

Tramonto in pianura (cr. Andrea Pavanello Wikimedia commons)

Come cambiano il territorio e la sua gente

Noi, gente di pianura, abbiamo il carattere franco e socievole, e il sorriso aperto, privo di ostacoli, come le nostre terre piatte. Siamo figli di un’unica nebbia e respiriamo la stessa aria, che trasporta quantità di scarichi industriali e civili.

L’inquinamento dell’aria, in grado di rendere l’atmosfera più trasparente, ci illude con il paradosso di cieli luminosissimi, tramonti oro-arancio-rosso e albe rosa pallido, persino qualche aurora boreale, un tempo prerogativa del circolo polare artico.

Siamo adusi all’afa tremula delle estati, faticose al respiro, alla fumana degli inverni, e a un sole sempre più urticante.


Campo di papaveri in Pianura Padana (cr. Tiziano Ferretti iosonospartaco)

Non trovate grandi ostacoli, percorrendo la pianura. Le strade dritte, intervallate da incroci e rotonde, sembrano non finire mai, e provocano, percorrendo l’aperta campagna, un senso di smarrimento che richiama il quotidiano infido riaffiorare dell’ignoto.

Purtuttavia, siamo gente serena, con i piedi ben piantati sulla terra e lo sguardo rivolto verso il cielo. Non è vero che la pianura appiattisce i pensieri o livella le emozioni. Non ci lasciamo abbattere dal ripetersi dei reticoli di strade e stradelli, dei canali di bonifica, dei pioppi sugli argini, dei capannoni industriali andati in malora, delle colture intensive, delle porcilaie dai canali maleodoranti.

Tra la nebbia e lo smog, l’aria acquista un suo senso, non è noia, non è ostacolo, né spaesamento. La geografia, figlia remota della centuriazione romana, diventa geografia dell’animo, bussola per i nostri cammini, integrazione spirituale fra luoghi e anime.

Resistiamo a tutto. Alla scomparsa degli uccelli acquatici che nidificavano nei canneti delle zone umide. Alla diminuzione delle macchie alberate e delle siepi di confine tra i campi. Ai frutteti trasformati in campi di barbabietole. Alle stalle moderne senza fienili. Ai polli allevati in batteria. Ai fossi senza rane. Alle specie aliene che sostituiscono quelle nostrane, come il siluro del Po; il gambero rosso dei fiumi, che fa strage di uova e girini di anfibi; l’ibis sacro, che si nutre di uova di aironi; il granchio blu, che preda un’enorme quantità di vongole del delta.


Il paesaggio lungo il Po (cr. Tiziano Ferretti iosonospartaco)

Viviamo in una terra dove i pioppi sono protagonisti. Noi della pianura li decliniamo al femminile, pioppe, in nome di un'antica galanteria, e in quanto piante femminili per eccellenza, perché hanno foglie che sanno chiacchierare al più piccolo alito di vento. Sanno parlare e accudire i nostri morti, come le nostre donne accudiscono i malati.

Ricordo quando, manifestando una innata connessione con la vita contadina, mia nonna metteva una foglia di erba medica sotto il mio cuscino, in segno di buon auspicio e di protezione. E mio nonno mi insegnava come ascoltare il rumore degli alberi che crescevano, le voci delle pioppe, il suono dell’erba, il canto delle spighe di grano. E sorridendo, levando il bicchiere di vino nelle sere invernali, a volte declamava, in dialetto:

“Quand al lambrosch al canta, lev’t in pee, voda al bicèr do volti e, dop, torneg adree.”

(Quando il lambrusco si fa sentire, alzati in piedi, bevine due bicchieri, poi ricomincia).

Riproduzione riservata