Il cannibalismo dal mito ai nostri tempi

Il cannibalismo dal mito ai nostri tempi

Francisco Goya, "Saturno divora il figlio", 1819, Museo del Prado (Wikimedia commons)

Tabù di tutte le culture o praticata per necessità

Il cannibalismo, cioè il nutrirsi di esemplari della propria specie, è un fenomeno molto diffuso in natura e presente negli insetti, nei pesci, negli anfibi, nei rettili, negli uccelli e pure nei mammiferi. Si tratta quasi sempre di una strategia di sopravvivenza basata sull'eliminazione dei soggetti più deboli e malati o il risultato di una competizione accanita, che può iniziare già nell'utero, all'interno di nidiate particolarmente numerose.


La mantide religiosa, la femmina divora il maschio (cr. NP Natural resources Wikimedia commons) 

Inoltre può essere l'esito della sistematica eliminazione dei figli non propri quando in un branco si instaura, come nel caso dei leoni, un nuovo maschio dominante. In molte specie di insetti il partner maschile viene divorato dalla femmina, dopo aver compiuto il suo unico dovere, in altri è la madre stessa che termina il suo ciclo di vita diventando nutrimento della propria prole.

Il cannibalismo all'interno della specie umana, l'antropofagia, è da sempre probabilmente il tabù più diffuso e spaventoso (ancor più dell'incesto), ma nonostante questo presente spesso nelle mitologie, nelle religioni e nelle storie di molte culture.


Hugues Taraval, "Il banchetto offerto da Tantalo agli dei", 1766 Versailles (Wikimedia commons)

Nella Bibbia viene citata più volte (per condannarla o minacciarla come punizione divina), per i greci Crono (il Saturno dei romani) divorava i propri figli, Tantalo invece li servì come pasto agli dei inconsapevoli, per non parlare di Licaone, Tieste e altri cupi racconti.

La storiografia antica attribuiva il cannibalismo a popoli non civilizzati, ma il suo utilizzo come forma atroce di vendetta si insinuò stabilmente nella letteratura da Seneca a Shakespeare. Fu però con la scoperta del nuovo mondo e con l'espansione coloniale che il cannibalismo assunse al rango di mito globale, il lato oscuro del “buon selvaggio” vagheggiato da Shaftesbury e Rousseau.


La statua di Rousseau a Ginevra (Wikimedia commons)

Per tre secoli esploratori, conquistadores e missionari scoprirono un’enorme varietà di popolazioni, considerate viventi ancora nel cosiddetto “stato di natura”, in una sorta di condizione di immacolata assenza di conflitti e passioni nefaste, un vero e proprio eden per chi veniva da un’Europa martoriata dalle guerre di religione.

Allo stesso tempo si riportarono con altrettanta morbosità notizie su molte tribù antropofaghe (in Africa, nelle Americhe e nelle isole del Pacifico) oppure intere civiltà basate sui sacrifici umani di massa (come gli Aztechi). La stessa parola cannibale deriva dai Caribi o Canibi, popolazione nativa delle Antille incontrata nel suo primo viaggio già da Colombo, a cui furono spiegate da altri indigeni le pratiche antropofaghe di tale tribù.


Ricostruzione ottocentesca di un banchetto di cannibali alle Fiji (cr. Coulon Wikimedia commons)

Da più di un secolo l’antropologia è attraversata da un acceso dibattito sulla reale esistenza, consistenza e diffusione di questo fenomeno. Si va dal negazionismo totale all’affermazione di una sua onnipresenza nella storia dell’evoluzione umana e per questo ora si tende a dettagliare più analiticamente i vari tipi di antropofagia.


Una via di Leningrado durante l'assedio, 1942 (cr. Boris Kudoyarov Wikimedia commons)

Quella causata da estreme necessità alimentari è nota e ben documentata anche ai nostri tempi: l’assedio di Leningrado del 1941-44, l’aereo uruguaiano caduto sulle Ande nel 1972 (storia peraltro narrata in vari film), molti casi di naufraghi alla deriva per settimane, come nel caso della Medusa nel 1816 o della baleniera Essex nel 1820.


J.L.T. Gericault, "I naufraghi del Meduse", 1818, Louvre (Wikimedia commons)

Da duemila anni cronisti raccontano di fatti simili durante assedi o carestie; sicuramente spesso si tratta della riproposizione di un luogo comune, ma se queste cose possono accadere ai giorni nostri figuriamoci se non può essere successo nei 200.000 anni di storia della nostra specie, con tutto quello che abbiamo passato in termini di avversità. Peraltro sono stati rinvenuti resti ossei di epoca neandertaliana, e anche molto precedenti, chiaramente sottoposti a processi di macellazione.


Il punto delle Ande in cui è avvenuto il disastro aereo nel 1972 (cr. boomerKC Wikimedia commons) 

Altrettanto ben attestata è l'antropofagia per scopi rituali o religiosi, come mangiare (o semplicemente addentare) il cuore e il fegato di un nemico ucciso per dimostrare spregio, il conseguimento della vendetta o al contrario per assumerne la forza e il valore.

In alcune culture vi era invece l’usanza di consumare parti dei parenti defunti per onorarne la memoria. Celebre è il caso dei Fore, una popolazione della Nuova Guinea che presentava un’altissima percentuale di affetti da una terribile malattia neurodegenerativa, affine al morbo della mucca pazza. Si scoprì che la causa diretta era la pratica di mangiare il cervello (prioni compresi) dei propri morti. Si proibì la tradizione e la malattia quasi scomparve.


Sacrifici umani fra gli aztechi, dal codice Magliabechiano (Wikimedia commons)

Oggi riti simili sono vietati ovunque anche se probabilmente qualche volta ancora celebrati clandestinamente. Anche i sacrifici umani potevano essere spesso motivo di antropofagia, dove la condivisione del pasto è un elemento centrale dell’identità comunitaria. Si può quindi comprendere l’accusa subita dai cristiani dei primordi, poiché l’eucaristia sembrava averne tutte le caratteristiche. L’accusa poi venne rivolta dai cristiani agli ebrei per molti secoli.

E qui sta un punto chiave, lo stigma dell’antropofagia è sempre stato associato a un gruppo, spesso vicino o rivale. Molte delle tribù incontrate dai colonizzatori definivano cannibali quelle vicine. Di converso molti africani catturati come schiavi erano convinti di essere destinati alle mense dei bianchi.


Foto dall'annuario scolastico di Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee (cr. The Stronista1 Wikimedia commons)

Per ultima consideriamo l’antropofagia patologica (o aberrante, come si diceva un tempo), cioè quella praticata da pazzi omicidi o fanatici. Gli esempi contemporanei sono macabri e ben noti e partendo dalla cronaca hanno invaso la cultura di massa tant’è che si mette speso sullo stesso piano Jeffrey Dahmer, vero serial killer, e Hannibal Lecter, personaggio letterario e cinematografico di successo. Anche questi abominii individuali sono sempre esistiti anche se non nella quantità che ci è proposta da film e serie tv.


Particolare del manifesto del film "Il silenzio degli innocenti" su Hannibal Lecter

Alla fine, quindi, la disputa antropologica si riduce alla domanda se siano esistite culture umane che abbiano stabilmente adottato pratiche di antropofagia come naturale e principale forma di alimentazione.


Bela Lugosi nel primo film dedicato agli zombi (cr. Monogram Pictures Wikimedia commons)

La risposta, per quel che ne sappiamo, è sicuramente no, anche perché recenti ricerche hanno dimostrato che dal punto di vista nutrizionale non sarebbe stato comunque conveniente. Rimane perciò un oscuro incubo ricorrente della nostra specie, che non a caso abbiamo proiettato su una figura immaginaria e irrazionale, di cui peraltro abbiamo già parlato attraverso questo quotidiano: lo zombi.

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