I ragazzini inghiottiti dallo zolfo

L'antica miniera di Gessolungo (Wikimedia commons)
Il lavoro minorile, la schiavitù, la strage
Avevo camminato senza fretta, senza sapere bene cosa stessi cercando. Avevo letto, certo. Avevo visto qualche fotografia del luogo. Ma non ero preparato a ciò che si prova davvero quando ci si trova lì, nel cuore del cimitero comunale.
È lì che il monumento ai carusi (parola dialettale siciliana per indicare i ragazzini) mi si è mostrato, come un’apparizione silenziosa, piccola, marginale. Niente orpelli, niente frasi roboanti: solo una stele chiara, semplice, e una croce. È qui che riposano, o forse continuano a gridare in silenzio, 19 bambini morti il 12 novembre 1881 nell’esplosione della miniera di zolfo di Gessolungo. Alcuni non furono mai identificati per la violenza dello scoppio. Senza nome, senza volto, senza storia scritta, figli della Sicilia e dell’Italia dimenticati o per vergogna o per interessi.
Foto del 1899, carusi all'imbocco di una miniera di zolfo (cr. Eugenio Interguglielmi Wikimedia commons)
Eppure la loro storia è scolpita nel terreno che ho calpestato, nei gradini che ho salito, nelle zolle che coprono le ossa di chi a dieci, undici, dodici anni, conosceva già la fatica, la fame, la paura, la violenza sessuale. I carusi non erano bambini come gli altri: erano proprietà. Merce da lavoro. Ceduti da famiglie povere ai picuneri in cambio di una “soccorritrice”, somma che legava quei corpi alla miniera fino al saldo del debito. Saldo che spesso non arrivava mai perché la paga era bassa e non bastava per pagare tutto.
Scendevano in galleria all’alba, con in mano la lanterna e sulla schiena la cesta. Uscivano al tramonto, quando uscivano. Spesso lo facevano carponi, respirando l’aria satura di zolfo, tra i colpi di piccone e gli ordini urlati da cani che si chiamavano caporali. Dormivano poco, mangiavano meno. Portavano sulla pelle bruciature, sugli occhi il buio, e sul cuore un silenzio che nessun bambino dovrebbe conoscere.
Mi sono seduto vicino al monumento, in quel piccolo angolo dove il tempo sembra non passare mai. E ho pensato a un altro ragazzino, Rosso Malpelo, il personaggio creato da Giovanni Verga. Anche lui, figlio della miseria, vittima di una società che condannava prima ancora di ascoltare. Anche lui lavorava in una cava, anche se non di zolfo, ma di rena rossa. Anche lui aveva perso un padre sotto terra. Anche lui era stato lasciato solo, etichettato come “malpelo”, malvagio per natura solo per il colore dei suoi capelli. Ma Malpelo non era cattivo: era solo “difeso”. E in difensiva per poter sopravvivere. Si era costruito un’armatura fatta di rabbia, di silenzi, di orgoglio disperato. E alla fine anche lui è scomparso sotto terra, forse morto, forse fuggito via, ma comunque inghiottito dal buio.
Particolare del monumento ai carusi (cr. Oppidumnissenae Wikimedia commons)
A Gessolungo non ci fu fuga. L’esplosione fu tremenda. Sessantacinque morti, tra cui 19 carusi. Nove non ebbero nemmeno un nome da incidere sulla pietra. Solo un numero. Solo un ricordo che oggi rischierebbe di perdersi, se non fosse per chi si ferma e ascolta.
Ascolta il vento tra le lapidi ma anche i nomi dei vivi, di quelli che dopo la strage si sono battuti per migliorare le condizioni dei lavoratori delle miniere. Perché qualcosa si è mosso, anche se troppo tardi, anche se non abbastanza, ma troppi erano già morti.
Il cimitero è tranquillo, il monumento è curato. Ma la memoria non può mai essere pulita del tutto. Resta sempre un filo di polvere, di zolfo, di infanzia rubata.
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