Il cappello del maestro

Ricostruzione di un'aula scolastica ai tempi della monarchia (cr. F. Cirrone Wikimedia commons)
La testa, il pensiero, il mistero
Il signor Puntaloro era una figura che pareva uscita da un libro scolorito. Viveva a Racalmuto, paese tra i campi di zolfo e le madri che piangono in silenzio. La sua casa stava in cima a una breve salita sassosa, appena oltre la chiesa dell’Annunziata, dove il vento faceva svolazzare le tovaglie stese al balcone e i pensieri lasciati a metà. Era maestro in pensione, ma per tutti era ancora “il maestro Puntaloro”. Nessuno osava chiamarlo “signore”, come se l’età non avesse cancellato la cattedra.
Non aveva moglie, né figli. Solo un cappello.
Un cappello grigio, con la tesa leggermente piegata da un lato e il nastro un po’ scolorito. Lo indossava da vent’anni. La leggenda diceva che fosse appartenuto a un professore di filosofia che aveva insegnato a Palermo e che, in punto di morte, glielo avesse donato con queste parole: “Conservalo bene. Dentro c’è il dubbio.”
Racalmuto fra anni 30 e 40 (Wikimedia commons)
Ogni mattina, alle otto e dieci precise, Puntaloro scendeva la salita, attraversava la piazza, entrava al bar Italia e ordinava un caffè stretto, senza zucchero, lo sorbiva in silenzio e usciva. Nessuno sapeva dove andasse. Lui stesso forse non lo sapeva. Ma ci andava.
La sorpresa
Un giorno, lo videro passare senza cappello.
Fu un evento. I vecchi si girarono, i bambini lo indicarono. Il barista Carmine chiese: “Maestro, e il cappello?”
Puntaloro lo guardò per un lungo istante, poi disse: “Oggi porto il pensiero.”
“Il pensiero?”
“Certo. Ogni tanto bisogna lasciar respirare la testa.”
Da quel giorno, cominciò a uscire un giorno col cappello, uno senza. Ma non solo cambiava l’abbigliamento. Cambiava lui.
L'uomo con il cappello in "The meaning of the night" di Magritte (Menil collection Houston Wikimedia commons)
Col cappello era Puntaloro il maestro: preciso, silenzioso, composto, quasi invisibile. Senza cappello diventava chiacchierone, ironico, quasi teatrale. Alcuni dicevano che recitava. Altri, che si svelava. Lui non spiegava mai. Sorrideva appena, e continuava a camminare.
Il paese cominciò a parlottare. La signora Agata, sarta in pensione, disse che forse il maestro era impazzito. Il dottor Calogero, che leggeva Freud, disse: “È un conflitto d’identità.”
Ma don Peppino, il sacrestano, aveva un’altra teoria: “Secondo me, quando si toglie il cappello, lascia libero lo spirito. E quando se lo rimette, se lo richiude dentro.”
La voce arrivò fino al sindaco, che lo invitò a parlare in piazza, per la festa dell’autonomia. Il maestro accettò. Tutti si chiedevano: “Col cappello o senza?”
Il discorso
Si presentò senza.
“Cari concittadini - disse - il cappello che indosso da anni è come la giacca della mia anima. L’ho portato per sentirmi qualcuno. Per proteggermi. Ma ogni tanto bisogna lasciarsi scoperti. Scoprirsi ridicoli. Umani. Perché se no, viviamo con la testa degli altri.”
Un applauso imbarazzato seguì il discorso. Alcuni applaudirono davvero, altri per imitazione. Qualcuno si grattò la testa, come cercando il proprio cappello.Assortimento di cappelli maschili (cr. Jorge Royan Wikimedia commons)
Qualche tempo dopo, il maestro cominciò a essere imitato. Alcuni ragazzi, per scherzo, si misero a uscire un giorno con il berretto, un giorno no. Ma a loro mancava la gravità. Puntaloro, invece, sembrava interrogare l’universo con ogni gesto. Persino quando si sedeva su una panchina e guardava le nuvole, pareva cercare qualcosa che sfuggiva agli altri.
Un pomeriggio d’inverno, al bar Italia, Carmine gli porse il caffè e disse: “Oggi senza, eh?”
Puntaloro annuì.
“E domani?”
“Domani forse sarò due,” rispose.
Cominciarono allora ad apparire lettere firmate da “Il signor Senza Cappello” sul giornale locale. Lettere ironiche, dolci, talvolta provocatorie, che parlavano del senso dell’identità, del giudizio degli altri, del tempo che si perde a voler sembrare e non essere. Nessuno sapeva chi fosse l’autore, ma tutti sapevano. Era lui.
La fine
Un giorno, sparì.
Non si vide più al bar, né in piazza, né alla posta dove andava ogni giovedì a spedire lettere. La porta della sua casa era chiusa, le imposte abbassate. Il paese mormorò.
Fu Carmine a trovarlo. Seduto sulla sedia, in veranda, il cappello sulle ginocchia e un biglietto tra le dita.Persiane come nella casa di Puntaloro (cr. Trimbur Patrick Wikimedia commons)
C’era scritto: “Non cercatemi in cielo. Non sono salito. Sono sceso nel mio pensiero.”
E accanto al foglio, un secondo cappello. Identico al primo.
Da quel giorno, molti cominciarono a portare cappelli, non per moda, ma per memoria. Non per coprire, ma per pensare. E ogni tanto, qualcuno se lo toglieva, e stava in silenzio.
E allora si diceva, tra i vicoli del paese: “Guarda… oggi cammina senza cappello. Forse è il suo giorno vero.”
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