Il libro che cambiava finale

Il libro che cambiava finale

David Pintor, murales di via Bombarda a Porto, 2014 (Wikimedia commons)

Confessioni di un lettore tradito dalle pagine

Io lo so che non mi crederete, ma a Salaparuta, dove le notti sanno d’olio lampante e di vento che gratta i tetti, io ho vissuto con un libro che non mi obbediva. Era un volume smilzo, rilegato in cartone, trovato un giorno nella bottega di un rigattiere, dietro un fascio di giornali vecchi. Pagine ingiallite, caratteri minuti, nessun titolo in copertina, solo una macchia d’umidità come una voglia sul volto d’un uomo. Portandolo a casa, pensavo di aver recuperato un compagno muto per le mie sere. Non sapevo che avrei invece incontrato un nemico, o forse uno specchio.


Costumi tradizionali di Salaparuta, di Eugenio Interguglielmi, 1850 (cr. Boston public library Wikimedia commons)

La prima lettura mi parve innocua: la storia di un uomo che, dopo anni di lontananza, tornava al paese e trovava la casa abbandonata, le stanze piene di polvere e silenzio. Mi piacque, perché era un racconto che poteva essere il mio, di tanti come me: il ritorno, la memoria, l’inganno delle cose che non ci aspettano più. Richiusi il volume, soddisfatto, pensando che avrei riletto qualche passo l’indomani.

Sorpresa

Eppure la sera dopo, sotto la stessa lampada a petrolio, aprii il libro e trovai un’altra fine. Non c’era più ritorno né casa, ma l’uomo decideva di restare lontano, e la sua gente, pian piano, lo dimenticava. Sfogliai le pagine avanti e indietro: non c’era traccia del finale che avevo letto la sera prima. Ero confuso, pensai a una mia distrazione, a un sogno che si era mescolato alla veglia. Ma le parole erano nette, incise come sentenze.


Henri de Smeth, "La lettura", 1901 (Wikimedia commons)

Da quel momento cominciò la mia condanna. Ogni sera, il libro mutava pelle. Una volta finiva con un matrimonio festoso, un’altra con una morte improvvisa; talvolta l’uomo del racconto si dissolveva nel nulla, come se non fosse mai esistito. Una sera addirittura trovai scritte frasi che parlavano di me, me stesso: di un lettore seduto a Salaparuta, accanto a una finestra, che leggeva un libro senza padrone. Rabbrividii.


Beato Angelico, il diavolo da "Giudizio universale", 1431 (cr. Francesco Bini Wikimedia commons)

Provai a confidarmi con don Carmelo, il parroco: “È il diavolo, figliolo - mi disse - chiudi il libro e buttalo nel fuoco.” Ma io non potei. Non era paura del demonio, ma paura di me stesso. Sentivo che non era il libro a cambiare: ero io, ogni giorno diverso, e le pagine non facevano che riflettermi, come acqua nera di pozzo.


Charles Green, "Student", 1881 (Wikimedia commons)

Così continuai. Ogni sera mi sedevo davanti al tavolo, e aprivo il volume con la stessa trepidazione con cui altri aprono una lettera di condanna o di grazia. Mi domandavo: quale fine mi toccherà stasera? Quale volto darà la pagina alla mia esistenza che si torce come una vite?

Smarrito

Gli altri ridevano di me. In paese mi chiamavano “il lettore smarrito”. Dicevano che inventavo tutto per riempire le ore, che nessun libro cambia da sé. Forse avevano ragione, ma io vedevo con i miei occhi: le stesse lettere che la sera prima dicevano una cosa, la sera dopo ne dicevano un’altra. Era la stessa beffa che accade alla vita, quando credi di averla capita e invece lei cambia direzione senza chiedere permesso.


Max Slevogt, "Il professor Pullman sulla roccia di Neukastel", 1918 collezione privata (Wikimedia commons)

Una sera d’inverno, col vento che spingeva la porta e faceva tremare i vetri, trovai un finale che mi fece gelare il sangue: l’uomo del racconto non solo non tornava, ma spariva. Non c’era traccia di lui, come se non fosse mai nato. Lessi e rilessi: la sua assenza era l’unico epilogo. E in quell’attimo mi accorsi che anche le note a matita che io stesso avevo scritto sui margini — il mio nome, le mie osservazioni — erano scomparse. Le pagine mi avevano cancellato.

Da allora non osai più aprirlo. Lo riposi sopra l’armadio, tra lenzuola smesse e scatole di scarpe. Ma la notte, nel silenzio, sento il fruscio delle sue pagine che si voltano da sole, come un respiro segreto. So che lì dentro la mia storia continua a mutare, e che io non sarò mai padrone del mio finale.


Quido Manés, "Student", 1860, National gallery Praga (Wikimedia commons)
 
Così vivo sospeso, prigioniero d’un libro che non ho scritto. Forse la mia vita è davvero questo: una storia che non si lascia fissare, che ogni sera si riscrive da capo, fino al giorno in cui non avrò più occhi per leggerla. E allora, quando sarà, mi domando: che finale avrò? Quello della casa abbandonata, quello dell’uomo dimenticato, o quello — più crudele — di chi non è mai esistito?

E mentre penso, nel silenzio della stanza, sento che il libro ride. Ride di me, che ho creduto di leggerlo, e invece sono stato letto io.

Riproduzione riservata