La dignità delle scarpe

Da un paio di scarpe dipese la qualità della vita di Totò (cr. Pensierarte Wikimedia commons)
L’arma di Totò contro la poliomielite
Negli anni Sessanta, in una Sicilia arsa dal sole e dal silenzio, tra le case di tufo e le strade sterrate, viveva un bambino che la sorte aveva piegato troppo presto. Si chiamava Salvatore, ma tutti, con quella dolcezza amara tipica del Sud, lo chiamavano Totò. Non correva, Totò. Non saltava. Non giocava come gli altri bambini. Era stato colpito dalla poliomielite, e da quel giorno il mondo era cambiato: le sue gambe non erano più gambe, ma due strumenti incerti, di dolore e dipendenza. Una, più debole e sottile, sembrava cedere a ogni passo, mentre l’altra, irrigidita da un tutore freddo e spietato, cercava invano di reggere l’intero peso del suo corpo e della sua infanzia interrotta.
Vaccinazione collettiva contro la poliomielite (Mississippi 1956 Wikimedia commons)
La poliomielite, in verità, aveva già trovato il suo argine: il vaccino esisteva, veniva somministrato in molte regioni del Nord e del Centro Italia. Ma in Sicilia, nei paesi più isolati e dimenticati, il progresso arrivava con lentezza. La campagna vaccinale si era fermata alle grandi città. Nei vicoli di polvere e mandorli secchi, tra analfabetismo e fatalismo, la prevenzione era un’eco lontana. Totò non lo ricevette mai, quel vaccino. Nessuno venne a cercarlo. Nessuno lo avvisò. Il virus, silenzioso e spietato, lo colse senza ostacoli, come se avesse trovato la porta aperta.
Le scarpe ortopediche che indossava — nere, alte, con fibbie lucide e suole spesse come zolle di terra — non erano calzature, ma gabbie. Ogni mattina, sua madre, con mani stanche e callose, gliele infilava con cura, cercando di non fargli troppo male. Ma facevano sempre male. Sfregavano contro la pelle fragile, sollevavano vesciche, lasciavano segni profondi che non guarivano mai del tutto. Ogni passo era una ferita che si riapriva. Ogni sorriso era un tentativo di non piangere.
Ritratto del presidente Roosevelt, affetto da poliomielite (opera di Jacob H. Perskie Wikimedia commons)
In paese, i compagni lo guardavano con un misto di curiosità e paura. Alcuni ridevano, altri lo ignoravano, ma nessuno si avvicinava davvero. Totò passava le sue giornate seduto sul gradino della casa, osservando gli altri rincorrersi tra le capre e i carri, mentre lui affondava nel silenzio. Un silenzio pieno di domande, di rabbia, di sogni spezzati. Certe notti si svegliava urlando per i crampi. La madre correva a massaggiargli la gamba, lo stringeva forte e lo cullava, cantandogli nenie antiche, come se potesse così ricucire ciò che la malattia aveva strappato via.
Poi arrivò la decisione: andare in Toscana. Un medico lì, si diceva, faceva miracoli. Totò non sapeva cosa fosse la Toscana, ma il viaggio cominciò all’alba, tra lacrime trattenute e valigie povere. Il treno fu lungo, affollato, rumoroso. Lui si aggrappava al braccio della madre, che stringeva un sacco con dentro il pane, un rosario e un po’ di speranza. Il freddo del Nord li accolse come un muro. Firenze era enorme, rumorosa, distante. L’ospedale un luogo di sguardi fugaci, di medici sbrigativi, di odore di disinfettante e lamenti.
Stele egizia del XIV secolo a.C. con un uomo affetto da poliomielite (cr. Deutsches grunes kreuz Wikimedia commons)
Totò fu spogliato, sollevato, misurato. Le mani dell’ortopedico lo toccavano come fosse un oggetto da aggiustare. Nessuno gli parlava con dolcezza. Gli mettevano calchi in gesso che si indurivano come corazze, lo costringevano a muovere le gambe in modi innaturali, tra urla e sudore. Ogni terapia era una tortura. Ogni progresso, una conquista costata sangue. La madre dormiva su una sedia, sempre con lui, ma impotente. A volte usciva a piangere in cortile, per non farsi vedere. Lui lo sapeva. Sentiva il dolore di lei, più forte del proprio.
Ci volle un anno. Un anno di esami, prove, notti insonni, giorni d’inferno. E infine arrivarono le nuove scarpe: meno pesanti, meno dolorose, ma sempre estranee. Totò camminava meglio, ma non correva. Non avrebbe mai corso. Tornarono in Sicilia in silenzio. Al paese sembrava cambiato poco, ma dentro Totò tutto era diverso. Camminava con lentezza, ma con una dignità nuova, anche se il dolore non l’aveva lasciato. Ogni passo era ancora una battaglia. Ogni sguardo, una ferita. Ma ora sapeva resistere.
E quando, anni dopo, camminava ancora con quelle scarpe ormai consumate, seduto al bar a guardare i bambini correre, sorrideva amaro. Perché ricordava ogni lacrima, ogni notte d’ospedale, ogni canto della madre, ogni silenzio. Quelle scarpe, così dure, gli avevano insegnato la tenerezza. E la sofferenza lo aveva reso uomo troppo presto, sì, ma anche capace di portare sulle spalle il peso del mondo e di non cedere.
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