La donna orgogliosa della gobba

"Les amants" di Magritte (Wikimedia commons)
“Vedo di profilo e scopro i trucchi”
Non mi guardare la gobba: ci sto in piedi sopra. Se la togli, crollo come una porta senza cardini. L’ho capito quando mio marito, Nino, ancora rideva con quel verso basso che pareva uno scalino rotto. “Sei tutta di lato”, diceva. Io rispondevo: “Mi piego per stare più dritta di te”. E lui, zitto, mi stringeva il fazzoletto nella tasca del grembiule: gesto che valeva più di qualunque promessa.
Sono nata quasi dritta, poi a tredici anni una spalla è scesa come un’alba sbagliata; da allora guardo il mondo in diagonale. A Vizzini, le diagonali sono sospetti che camminano. I bambini mi chiamavano “la storta”; le madri abbassavano gli occhi, come a chiedere scusa a nome della terra. Io tenevo il capo in avanti, per non vedere il loro imbarazzo. Crescendo, ho imparato a contare i passi sulle pietre, a misurare il respiro con il saliscendi delle case, a far pace con l’ombra che mi precede.
Le campagne nei dintorni di Vizzini (cr. Davide Mauro Wikimedia commons)
Mia madre, Rosaria, diceva che le donne nascono con una gobba invisibile: è il peso delle cose che non si dicono. La mia, col tempo, ha deciso di farsi vedere. Prima un nodo alla nuca, poi un dosso. Il dottore parlò di cifosi; io, più semplicemente, di memoria. Perché in quel rigonfiamento sento la contabilità dei giorni: le bucce di limone per strofinare i piatti, le notti a vegliare la febbre dei figli, i conti pareggiati con gli spiccioli, il pane duro bagnato perché bastasse.
I figli dritti
Ho avuto due figli dritti come pali d’ulivo. Lui geometra, lei professoressa a Licodia. Quando si avvicinano, mi raddrizzo di un dito; è il mio miracolo domestico. “Mamma, curati”, insistono. “Sei giovane per rassegnarti”. E io: “La gobba me la sono guadagnata; è il mio attestato di servizio”. Non è una pena, è una postura: la maniera che ho trovato per non spezzarmi quando tutto intorno voleva farmi uguale agli altri.
Con Nino ci siamo amati storti e chiari. Muratore con un ginocchio che faceva i capricci, parlava soprattutto con le mani: alzava un piatto, infilava un chiodo, aggiustava il rubinetto. La prima volta che lavò i piatti senza che glielo chiedessi, capii di essere stata scelta. Quando morì, il letto rimase più lungo di me; da allora dormo in diagonale e parlo con la gobba come si parla a un cane fedele. “Cammina”, le dico, “reggimi”. Lei brontola, ma poi mi tira su.
"Un giorno decisi di smettere lo scialle" August Mack "Ritratto con mele" (Lenbachhaus Monaco Wikimedia commons)
Ci fu un giorno di vento in cui decisi di smettere lo scialle. Volevo che la gente vedesse il mio perno. Scesi per il corso tra le voci del mercato: pesce, arance, cicorie. Una donna mi guardò con pietà. Le sorrisi. Non per bontà: per orgoglio. Chi non ha gobba crede di guardare avanti; io, da qui dietro, vedo le cose di profilo e scopro i trucchi. La curva mi insegna l’arte degli angoli: le verità abitano sempre dove il muro non fa conto di avere orecchie.
"Mio figlio dice che non dovrei affacciarmi" Particolare da "Donna al balcone" di F. Zandomeneghi (Wikimedia commons)
Quando la sera i ragazzi di quartiere fanno chiasso, apro il balcone e ascolto. Mio figlio dice che non dovrei affacciarmi, che potrei inciampare. Ma io conosco ogni gradino: li ho lucidati con la schiena. Ogni scalino è stato un pensiero, ogni patina una rinuncia. In cucina tengo una sedia scura, bassa; è la mia sentinella. Mi siedo, respiro, appoggio la gobba al vuoto. Non c’è nessun dolore che non accetti, purché abbia un nome. Il dolore senza nome piega in avanti: quello con nome ti fa da sostegno.
Il sogno
Qualche volta sogno di camminare dritta. Nel sogno non riconosco le case, i santi, le curve della strada per Vizzini Scalo. Mi sveglio, accarezzo il dosso con la mano aperta e dico piano: “Resta”. Non per abitudine: per fedeltà. Senza di lei sarei un foglio che il primo soffio porta via. Con lei sono una pagina già scritta, che regge anche quando il libro si chiude.
Le mie vicine parlano di viaggi, di mare, di cure termali. Io viaggio stando ferma: ogni mattina rifaccio lo stesso tragitto tra la credenza, il lavello e la finestra. Dicono che la ripetizione è la prigione delle donne. Io rispondo che è la sua libertà: ci fai i buchi per respirare. Nel rito trovo il mio passo; nel passo, il mio diritto. È così che tengo dritti i figli: dando loro lo spettacolo di una madre che non cede.
Il fumo dalla sommità dell'Etna (cr. Cattan2011 Wikimedia commons)
Alla festa di San Giovanni, quando i fuochi fanno bianchi i balconi, salgo piano fino alla Chiesa Madre. L’Etna, da lontano, fuma come una pentola dimenticata: mi rassicura il suo respiro antico. Lì penso che la mia gobba è un piccolo vulcano spento: ha lavato con il fuoco le mie paure e adesso fa terra. Mia figlia dice che insegna meglio quando mi immagina in fondo all’aula, curvata ma vigile; mio figlio misura strade e tetti e giura che le linee dritte sono brave soltanto se sanno obbedire a un disegno.
Ogni tanto mi fermo davanti allo specchio alto del corridoio. Di fronte sembro un errore; di lato, un viadotto. Rido da sola. Penso a chi mi guardava da ragazza e voltava la testa per imbarazzo. Se li incontrassi, offrirei loro un consiglio: piegatevi dove potete, perché dritti si cade più in fretta.
"Ogni tanto mi fermo davanti allo specchio alto" particolare da "Donna allo specchio" di G. De Cesario (Itatiram Wikimedia commons)
Quando verrà l’ultimo giorno, non voglio fiori che appesantiscano. Chiederò un lenzuolo leggero e il mio scialle, per ricordarmi che si può coprire e scoprire la verità senza offenderla. I figli avranno da fare: una lezione, un cantiere, un abbraccio con qualcuno che li aspetta. Io, intanto, passerò la mano sul dosso e dirò l’ultima parola alla mia compagna: “Grazie”. Perché mi hai tenuta dritta quando il mondo, presunto corretto, faceva storto.
Se domani mi vedrete per il corso, non abbiate premura di raddrizzarmi. Portatemi un’arancia di Vizzini e una risata. Le metterò in bilico sul dosso: una per la sete, l’altra per il coraggio. Camminerò in diagonale come sempre, facendo finta di cadere per ricordarmi che si resta in piedi soltanto se si sa piegare il giusto.
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