La risata storta di Cicciu

La risata storta di Cicciu

"La risata del folle" di Jacob Cornelisz van Oostsanen al Davis museum and cultural center (Wikimedia commons)

Il matto di Calatafimi che diceva la verità

A Calatafimi, quando non pioveva, il sole si incrostava sulle pietre come olio rancido. Le case, basse, puzzavano di muffa e cipolla, e l’aria portava sempre il suono di qualcuno che bestemmiava piano, senza forza, come un’abitudine vecchia.

Cicciu lo chiamavano “u scemu ridenti”. Rideva sempre. Anche quando lo prendevano a calci, rideva. E più lo colpivano, più si piegava in due, non dal dolore, ma dal ridere. Era piccolo, con un occhio che guardava in là e l’altro che guardava dentro, e coi piedi storti come quelli di chi ha camminato troppo nei sogni e poco nella terra.


Calatafimi nell'immagine di Francesco di Bartolo (cr. francescodibartolo80 Wikimedia commons)

Sua madre, morta partorendolo, era stata serva in casa di un avvocato. Il padre, si diceva, era uno che non si faceva vedere di giorno. Cresciuto a pane e rifiuti, Cicciu parlava poco e male, ma la sua risata si sentiva da due vicoli più in là.

Un giorno lo trovarono che guardava i garibaldini in fotografia, appesa nella stanza del municipio. Rideva pure lì. Il maresciallo gli disse: “Che ti fa ridere, scemo?” E Cicciu rispose: “Chisti, chisti su’ tutti morti, e io sugnu vivo!”

Lo portarono fuori tirandolo per l’orecchio, e lui rideva, rideva così forte che la gente, per la prima volta, si fermò a guardarlo. Non con pietà, ma con fastidio. Perché quella risata sapeva di verità. Sapeva che nessuno di loro aveva più il coraggio di ridere così.


Remigio Legat, "La battaglia di Calatafimi" esposto al Museo del Risorgimento di Milano (Wikimedia commons)

Cicciu dormiva nei pressi del cimitero, in una casupola di lamiera e cartoni. Quando qualcuno moriva, lui si avvicinava al funerale, e quando tutti piangevano, lui rideva. Una volta, la vedova del farmacista lo colpì con l’ombrello: “Cristiano senza cuore!” E lui, col sangue sul labbro, rispose: “Megghiu ristiri.”

La gente cominciò ad averne paura. Dicevano che portava male. Che rideva del dolore, della fame, della morte. Ma nessuno lo sfamava. Ogni tanto gli lanciavano una crosta, un pezzo di pane secco. Lui ringraziava con una risata. Quella risata bastava.

Un giorno d’inverno, pioveva da tre notti, e Cicciu non si vedeva. Pensarono fosse morto. Il maresciallo disse: “Meglio così. Un pazzo in meno.” Ma il giorno dopo, al mercato, tra i banchi mezzi vuoti, si sentì una risata. Lunga, sottile. Era lui. Nudo dalla cintola in su, coi pantaloni bagnati e una gallina in braccio.


"Cicciu si presentò con in braccio una gallina" (foto dal blog Le galline)

“Cicciu! Di chi è quella gallina?”

Lui guardò il cielo e disse: “Ddi Diu!”

Lo presero, lo portarono in caserma. Lo misero in cella. Ma rideva. Uno dei carabinieri, giovane, lo fissò a lungo e poi gli chiese: “Perché ridi sempre?”

Cicciu smise un momento. Lo guardò. Poi disse piano: “Pecchì si ci pensu, mi venissi a chianciri.”


Carabiniere in alta uniforme (cr. Salvatore Cannizzaro Wikimedia commons)

Dopo quella notte, nessuno volle più vederlo. Lo spedirono in manicomio, a Palermo. Sparì. E per anni, a Calatafimi, nessuno rise più.

Passarono stagioni e sindaci. Passò il tempo della fame e quello dell’assistenza. Ma il paese restò lo stesso: duro, con le crepe nascoste sotto le feste patronali.

Una volta, il parroco volle che i ragazzi dell’oratorio andassero a visitare i malati del vecchio ospedale psichiatrico. Uno di loro, il figlio del fornaio, raccontò di aver sentito una risata strana venire da una stanza chiusa. Nessuno ci credette.


Il vecchio manicomio di Palermo in una foto precedente al 1912 (Wikimedia commons)

Poi, un pomeriggio di luglio, durante la processione di San Michele, mentre il parroco benediceva la folla e il sole faceva sudare anche le statue, qualcuno sentì, da lontano, una risata.

Nessuno la riconobbe. Ma tutti si voltarono. Come a cercare, per un istante, qualcosa che avevano perduto.

E qualcuno, per sbaglio o per nostalgia, sorrise.

La vecchia Concetta, che aveva visto più morti che primavere, disse solo: “Era Cicciu.”

E nessuno la contraddisse.

Da quel giorno, ogni tanto, nel silenzio delle viuzze o durante il vento forte, qualcuno giura di sentirla ancora: quella risata storta, sgrammaticata, che non chiedeva niente ma ricordava tutto.

Ogni tanto, il vento scende dal monte Barbaro e graffia i tetti. I vecchi si chiudono in casa, i giovani vanno via. Il paese resta.


Il monte Barbaro con il tempio greco (cr. Holger Uwe Schmitt Wikimedia commons)

Hanno costruito un monumento a Garibaldi, in piazza. Di fronte, c’è ancora la vecchia foto dei mille. Un giorno, qualcuno ha trovato scritta col gesso, sul muro accanto, una frase:

“Megghiu ristiri”.

La sindaca ha fatto cancellare tutto. Ma il giorno dopo la frase c’era di nuovo. Nessuno l’ha vista scrivere, eppure tornava. Come la risata di Cicciu. Come certe cose che fanno rumore anche quando non ci sono più.

E così Calatafimi va avanti. Con la schiena piegata e la bocca chiusa. Ma da qualche parte, in mezzo alla polvere, resiste ancora una voce storta, che ride mentre tutto crolla.

Perché chi non ha niente da perdere, a volte, è l’unico che dice la verità.

E la verità, a Calatafimi, fa ancora ridere. Ma solo di notte.

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