Lo scrittore senza libri

Lo scrittore senza libri

"La passione della creazione" di Leonid Pasternak (Wikimedia commons)

Parlava con i suoi personaggi

A Palma di Montechiaro, quando il vento scendeva a spirale dalle colline e portava con sé i semi dei fichi d’india, tutti sapevano che lo scrittore sarebbe uscito. Bastava guardare la porta azzurra della sua casa, scrostata dal sole e dalla salsedine, aprirsi con lentezza e lasciar passare la figura curva, magra, con la camicia di lino e il taccuino che non usava mai.


Un lavoratore dei campi nella zona di Palma (cr. Archenzo Wikimedia commons)

Lo chiamavano l’autore distratto, ma non era vero. Sembrava distratto, sì, ma solo perché mentre camminava per le vie silenziose del paese, parlava a voce bassa con i personaggi che aveva inventato. E loro rispondevano. Qualcuno l’aveva sentito confabulare con una certa Nunzia, che pare fosse una vedova del 1897, o con un certo Rosario, uno zoppo del dopoguerra che voleva attraversare la Sicilia per vendere cipolle. Ma quando gli chiedevano dove si trovavano quelle storie, in quale libro, in quale racconto, lui scrollava le spalle. “Non lo so… forse l’ho scritto, forse no.”

Al bar

Non rileggeva mai nulla. Non ricordava i titoli dei suoi racconti, né le trame, né i finali. Ma ricordava le voci, i passi, i sospiri. Diceva che i suoi personaggi lo venivano a trovare di notte e che a volte si sedevano con lui a tavola, chiedendogli il sale o un bicchiere d’acqua. Una volta, mentre prendeva il caffè al bar di Don Calò, lo si sentì sussurrare: “Smettila, Carmela, ti ho già fatto morire due volte, non insistere.”

Palma di Montechiaro era abituata a lui, e anzi si era adattata. Il panettiere lasciava ogni mattina un panino accanto alla porta della sua casa, “per quel personaggio che ha fame”. La maestra della scuola, una certa signorina Vadalà, lasciava bigliettini nella cassetta della posta con domande strane: “Quanti anni ha adesso il ragazzo che si era nascosto dentro la bottiglia?”. E lui, se li trovava, li bruciava lentamente, senza mai leggere.


Allo scrittore veniva sempre lasciato un panino (cr. Albarubescens Wikimedia commons)

Scriveva con una Olivetti Lettera 32 poggiata su una tavola di legno sbilenca, senza mai tornare indietro. Una volta finito un foglio, lo lasciava lì, lo prendeva il vento o il gatto o la polvere. Diceva che le parole, se vere, restano nei muri, nel legno, nel fiato. “Le storie non stanno sulla carta, stanno nelle scarpe”, disse un giorno al parroco, che non capì ma annuì. A volte, mentre camminava sotto il ficus del cortile comunale, le parole uscivano dalla sua bocca come sogni a metà: “Maria non ce la farà… E Pietro? No, Pietro forse la tradisce… o forse no, forse la sogna…”. Qualcuno trascriveva quelle frasi, le metteva insieme, e creava racconti che poi pubblicavano su foglietti volanti, distribuiti alla festa della Madonna del Monte.

Una Olivetti Lettera 32 (cr. maclemens Wikimedia commons)

Ma lui non ne voleva sapere. “Io ho già scritto tutto quello che non ricordo. Se lo ricordo, vuol dire che non era importante.” Una volta, lo trovarono al cimitero. Parlava con una tomba senza nome. Si scusava. “Non avrei dovuto cancellarti dal terzo capitolo, ma sembravi già stanca”.

Lo scrittore parlò anche con il parroco (particolare da "Viaticum" di H. Siemiradzki, National museum Varsavia Wikimedia commons) 

Nessuno sapeva quanti anni avesse, né dove fosse nato. Si diceva che un tempo avesse vissuto a Palermo, o a Gela, o forse in Africa. Ma a Palma di Montechiaro era arrivato senza passato, solo con una valigia leggera e una pila di fogli gialli legati con uno spago. Mai aperti.

Un foglio

Un giorno al suo posto, in piazza, sotto la panchina dove si fermava a parlare con i suoi personaggi, comparve un foglio. C’era scritto: “Se mi cercate, chiedete ai personaggi. Sono con loro, come sempre”. Ogni tanto, si sente nel vicolo: “Nunzia… ti ho trovata.”

C’è chi giura di averlo visto nel reparto ortofrutta, discutere con un vecchio frate che cercava le albicocche del ’43, o nella navata destra della chiesa, in ginocchio, a chiedere perdono per un errore di punteggiatura. Perfino i bambini, giocando a rincorrersi tra le viuzze, si fermano a volte, guardano nel vuoto e dicono: “Zitto! C’è lo scrittore che parla con uno senza faccia.”


Gli scaffali di una biblioteca (cr. Raquel Barberan (Wikimedia commons)

Nel retro della biblioteca comunale, tra due scaffali abbandonati, qualcuno trovò una macchina da scrivere con dentro un foglio. C’era scritta una sola frase: “Non sono io a scrivere, ma chi mi cerca.”

Fu allora che il sindaco decise di dichiararlo “scrittore municipale invisibile”, e ogni primo martedì del mese, i bambini della scuola elementare lasciano un bigliettino sulla sua panchina, con una frase inventata. Se il giorno dopo il foglio non c’è più, vuol dire che gli è piaciuta. E allora la frase diventa parte del paese, come la chiesa, come le scale vecchie.

Perché in fondo, le sue storie non cercavano lettori. Cercavano complici.

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