L'unico vero Natale di don Calogero
Maestro di Colonia, "Natività", Detroit institut of art (Wikimedia commons)
Grazie a un asino la festa diventò una cosa vera
Nel giorno di Natale, iosonospartaco offre ai lettori questo racconto di Giacomo Scillia che parla di una festa vissuta in modo diverso nella sua Sicilia.
Il paese di Salvo, arrampicato come un vecchio stanco sui dorsi aridi dei Nebrodi, non è un semplice agglomerato di case: è un’ossessione di pietre grigie e tetti che sembrano scivolare l'uno sull'altro per non precipitare nel vuoto della vallata sottostante. A dicembre, il vento ci soffia dentro con una rabbia antica, una "vuciata" che non concede tregua e che pare portarsi via anche i pensieri dei pochi cristiani rimasti a guardia del nulla. È un vento che scortica le facciate delle chiese e s’infila sotto le porte, portando con sé l’odore del muschio gelato, della cenere dei bracieri e di quel senso di attesa che precede il Natale, una festa che in Sicilia assume spesso i toni di un rito funebre mascherato da gioia collettiva.

Alexander Laureus Satuloitu "Natività", Pori art museum (Wikimedia commons)
Don Calogero Micciché, per tutti "il Filosofo" – non per studi fatti sui libri, ma per quella sua abitudine di guardare le cose di sghimbescio, come se cercasse sempre il rovescio della trama – stava fermo davanti alla finestra della sua casa in cima al quartiere della Matrice. Quello era il Natale dei suoi settant’anni. Un numero tondo, un cerchio perfetto che gli pareva una bocca aperta per sbadigliare la vita intera, o forse una voragine pronta a inghiottirlo senza fare rumore. Da lassù, egli osservava il mondo come se fosse un teatro di marionette a cui qualcuno aveva tagliato i fili, lasciandole però capaci di muoversi ancora per inerzia.
Fuori, la neve aveva cominciato a "farina" sottile, coprendo le basole della piazza con un velo casto che nascondeva momentaneamente le lordure del giorno. Di sotto, il paese si agitava in quel fermento isterico che precede la vigilia. C’erano le luminarie, tre archi di lampadine colorate che tremavano al gelo, emettendo un ronzio elettrico simile a un lamento costante. La gente correva, s’urtava con i pacchi in mano, si scambiava auguri che suonavano come monete false, battute su un metallo povero, comprate al mercato della convenienza sociale per non ammettere di sentirsi terribilmente soli.

Giorgione, "Adorazione dei pastori", National Gallery (Wikimedia commons)
«Ecco,» mormorò Don Calogero, aggiustandosi lo scialle di lana ruvida sulle spalle, «ecco la gran recita del Natale. Si mettono tutti la faccia del "buono", perché così vuole il calendario. Si lavano la coscienza con un bacio frettoloso alla statua di gesso e una fetta di panettone troppo dolce, ma il Bambinello, povero cuore, nasce al freddo ogni anno solo per non vedere altro che maschere. Maschere che sorridono per nascondere che dentro sono cenere, o peggio, rabbia».
Lui, la maschera, aveva deciso di togliersela definitivamente. Quella mattina non era sceso al circolo dei civili. Non era andato a messa. Non aveva comprato il torrone da don Santo, né aveva ordinato il cappone per il brodo. Era rimasto a guardare il "fuori" dal "dentro", sentendo crescere in sé quello che Pirandello avrebbe chiamato il sentimento del contrario. Vedeva la gioia forzata dei compaesani e sentiva, per contrasto, un vuoto abissale che nessuna liturgia poteva colmare.

Pescoller senior "La nascita del Cristo", 1923 San Cassiano (Wikimedia commons)
Perché la verità, quella vera che ti morde la nuca quando il silenzio della casa si fa troppo stretto, è che a Salvo il Natale è un’impostura della memoria. Ognuno festeggia non chi c’è, ma chi manca. Le sedie vuote attorno alle tavole imbandite pesano più di quelle occupate dai vivi; i morti siedono a capotavola, invisibili eppure ingombranti, a mangiare il fiele dei ricordi mai risolti.
Proprio in quel momento, vide Maddalena passare sotto la sua finestra. Maddalena, che puliva la chiesa con una devozione che pareva una colpa da espiare, trascinava i piedi nella neve fresca. Polacca di nascita, ma diventata pietra siciliana per un destino bizzarro e crudele, portava negli occhi quella malinconia profonda che solo chi ha perso una patria può conoscere. Don Calogero la guardò e sentì una stretta al petto. Lei era l'unica, in tutto quel viavai di gente festante, a non sorridere per forza. Lei non recitava il Natale; lei lo subiva, nuda nel suo dolore, come una verità che cammina in un mondo di ombre.

Paolo Veneziano "Natività", chiesa di San Pantalon a Venezia (Wikimedia commons)
A un tratto, accadde il "fatto". Un fatto minuscolo, come sono tutti i fatti che cambiano il corso di un’anima stanca. Nella piazzetta deserta di fronte alla chiesa, un vecchio asino, scappato forse da qualche stalla dimenticata nel fondo valle, si fermò proprio sotto l'arco di luci elettriche blu e rosse. L'animale era magro, col pelo sporco di fango e neve, e guardava verso l'alto con una fissità che pareva un rimprovero metafisico lanciato contro il cielo scuro. Era l'antitesi della festa: sporco, solo, muto, assolutamente inutile al commercio degli auguri.
I ragazzi del paese, eccitati dall'attesa del cenone, cominciarono a tirargli bucce d’arancia, ridendo della sua immobilità di pietra. «Guarda il somaro di San Giuseppe!» urlava uno. «È venuto a chiederci la strenna di Natale!» sbeffeggiava un altro. La crudeltà dei bambini era la stessa degli adulti, solo più onesta nella sua spietatezza.

Beato Angelico "Adorazione del bambino" (cr. Appaches Wikimedia commons)
Don Calogero, dal suo osservatorio al primo piano, sentì una vampa di sdegno salirgli alla gola. Quell’asino, nella sua miseria, era più "Natale" di tutti loro messi insieme. Era la creatura nuda, l'essere senz'altro scopo che l'esistere sotto il gelo, senza pretese di felicità confezionata. Aprì la finestra con un colpo secco che fece tremare i vetri. Il freddo di Salvo gli entrò in casa come un padrone arrogante, spegnendo il calore della stufa.
«Ehi! Lasciatelo stare, maleducati!» gridò con quanto fiato aveva in corpo. «Quello è l'unico che sta dicendo la verità in questa piazza di bugiardi! Lui non recita la parte del festante, lui è la vita che soffre! E voi non siete degni di guardarlo!»
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Jim Padget "Il capitolo 2 del vangelo di Luca" (Wikimedia commons)
I ragazzi si fermarono, sorpresi da quella voce tonante che pareva piovere dal cielo. Don Calogero non aspettò oltre. Si mise il cappotto pesante, quello buono che usava per i funerali e per le occasioni in cui la dignità doveva farsi stoffa, e scese le scale di corsa. Uscì in piazza. La neve gli bagnò subito i capelli bianchi e le lenti degli occhiali. Si avvicinò all'asino, mentre la gente usciva dalla chiesa per la fine della novena, fermandosi a guardare la scena con quella curiosità malevola tipica dei piccoli centri siciliani, dove ogni deviazione dalla norma è un peccato capitale.
Mise una mano sulla testa dell'animale. Sentì il calore della carne sotto il pelo ispido, il battito lento e regolare di quel cuore stanco. In quel momento, il paesino di Salvo, con le sue miserie, le sue liti per un palmo di terra, le sue depressioni nascoste dietro i sorrisi di circostanza, disparve. Non c’erano più il tempo cronologico, le tasse, i medici, le preoccupazioni per un futuro che appariva come una nebbia fitta. C’era solo un uomo e una creatura, due solitudini che si riconoscevano finalmente sotto un cielo di piombo.
«Buon Natale, povero Cristo,» sussurrò all'asino, quasi volesse confessarsi a lui, unico confessore possibile in quella sera di finzioni.
E l'asino, come se avesse compreso tutto il peso della condizione umana, sollevò il muso rugoso verso le stelle invisibili e emise un raglio lungo, straziante, un suono che parve squarciare il cielo. Un raglio che rimbombò tra i vicoli di pietra come una campana a morto per tutte le vanità umane, per i regali inutili, per i rancori taciuti sotto l'albero. Era il grido della natura che si riprendeva il suo spazio.

Wiener Werkstatte "stampa della natività" (Wikimedia commons)
Don Calogero sorrise. Aveva capito. La vita non è il panettone, non è la "famiglia" riunita per contratto sociale o per paura del vuoto. La vita è quel raglio, quella protesta nuda e disperata contro il freddo del mondo. Si sentì improvvisamente leggero, libero dalla maschera del "rispettabile settantenne". Maddalena, che si era fermata poco lontano con le mani giunte, lo guardò e, per la prima volta, i suoi occhi sembrarono ancorati a un momento di realtà condivisa. Lui le fece un cenno con la mano. Un saluto vero, da uomo a uomo, da anima a anima.
Quella sera di Natale, Don Calogero non accese le luci in casa. Cenò con un pezzo di pane schietto e un bicchiere di vino forte, al buio, guardando le stelle che bucavano il nero sopra le creste dei monti. Era il Natale più profondo della sua vita, perché finalmente la maschera era caduta. Restava solo la vita, nuda e splendida nella sua tragica verità, sospesa tra il fango di Salvo e l'infinito del cosmo.
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