L'uomo con i tacchi alti

Scarpe con i tacchi alti (Wikimedia commons)
Storia del barbiere né santo né peccatore
A Villarosa, quando qualcuno camminava senza far rumore, si diceva che aveva la mente piena. Sebastiano, invece, camminava facendo un suono strano, diseguale. Un passo sordo, l’altro ticchettante.
Tacco sinistro basso, tacco destro più alto. La gente diceva che fosse una trovata per farsi notare, ma la verità è che lui non aveva mai cercato occhi addosso. Era la musica del suo corpo che lo precedeva, stonata, come un valzer ubriaco al mercato.
Panorama della zona di Villarosa (cr. Trolvag Wikimedia commons)
Indossava sempre pantaloni ben stirati, giacche di seconda mano con un pizzico di vanità nei polsini: un merletto, una cucitura lucente, un fiocco quasi invisibile. Aveva i capelli tirati indietro, unghie curate, e quelle scarpe col tacco sottile — mai troppo alto, mai da uomo, ma sempre lucidate come specchi da teatro.
Spiato
I ragazzini lo spiavano, a volte lo imitavano camminando sbilanciati, ridendo. Ma bastava che lui si voltasse: lo faceva lentamente, con un mezzo sorriso, e gli occhi verdi che sembravano dirti “e allora?”. Nessuno reggeva il suo sguardo più di tre secondi.
Abitava in via Crocifisso, vicino al murales scrostato della Madonna nera. Una casa bassa, con un balcone storto da cui pendevano orchidee finte e calze appese. Viveva da solo. C’era chi diceva che un tempo aveva avuto un amore — forse un soldato, forse un maestro — ma nessuno lo sapeva per certo. Nessuno gli parlava veramente, al di là del saluto educato, come si fa con chi non si sa dove mettere, né tra i santi né tra i peccatori.Sebastiano aveva una bottega da barbiere (cr. Ben Shahn Wikimedia commons)
Sebastiano faceva il barbiere, ma solo su appuntamento. Tagliava i capelli solo agli anziani e alle vedove. Diceva: “Non tocco chi non ha mai perso qualcosa”. A chi provava a riderne, rispondeva con una domanda tagliente: “E tu, cos’hai perso?”.
Sottovesti anni 30 (cr. Peloponnesian folklore foundation Wikimedia commons)
Aveva 66 anni. Il padre lo aveva buttato fuori di casa a ventuno: lo aveva sorpreso a provare una sottoveste della nonna, ridendo allo specchio. “Hai sporcato il sangue!” gli aveva urlato. La madre, zitto cuore, gli aveva lasciato una scatola con ago, filo, e un biglietto: “Cuci quel che sei, e fallo forte”.
Era andato a Palermo, poi a Catania, poi tornato. Ma Villarosa non si era spostata di un passo. Gli pareva che i muri del paese si ricordassero ancora il suo odore d’allora. Così cominciò a parlarci, ai muri. E alle scarpe. Le puliva ogni mattina come si fa con i santi: ogni tacco aveva un nome, un umore, una storia.
Una volta al mese, si recava al cimitero con una rosa cucita sul bavero. Lì, seduto su una panchina, parlava da solo. “Vedi? Oggi ho messo le nere, quelle della rabbia elegante…” oppure: “Quelle rosse non le porto più, mi ricordano troppo la notte della stazione.”
Il treno
La notte della stazione. Nessuno sapeva cosa fosse successo. Ma una notte — era il 4 dicembre — qualcuno vide Sebastiano camminare sulla massicciata del treno, in completo chiaro e scarpe da sera. Non si seppe dove andasse. Tornò solo dopo due giorni, con la giacca sgualcita e un taglio al polso. “Mi si è aperto un bottone dell’anima,” disse, e nessuno ebbe il coraggio di riderne.
La stazione di Villarosa (cr. Emme17 Wikimedia commons)
Negli ultimi anni, Sebastiano aveva cominciato a scrivere. Riempiva quaderni a righe con parole strane, disegni di scarpe che sembravano facce, pensieri lasciati a metà. “Una scarpa non è solo una scarpa. È una memoria portata in fondo alla strada.” Oppure: “Chi porta il tacco cammina sul filo del proprio desiderio”.
Un giorno, il Comune gli chiese di partecipare a un progetto: un libro vivente sulla memoria. Doveva raccontarsi ai ragazzi del liceo. All’inizio rifiutò. Poi accettò, ma con una condizione: che lo ascoltassero in silenzio, e scalzi."Quando ho chiesto abbracci mi avete venduto derisione" (cr. Deutsche Fotothek Wikimedia commons)
Videro un uomo stanco, ma intero. Disse: «Non mi interessa più sapere se sono uomo, donna, o punto interrogativo. Io sono chi non si è ucciso per non darvi soddisfazione. Ho amato in modi che nemmeno il vocabolario sa descrivere. Ho ballato con la mia ombra per anni. E quando ho chiesto abbracci, mi avete venduto derisione».
Uno dei ragazzi, con aria insolente, chiese: “Ma almeno è felice adesso?” Sebastiano rimase in silenzio. Poi si tolse una scarpa, e la mostrò. «Dentro questa, c’è una foto. Quella che nessuno ha mai voluto vedere.»
La scarpa cadde. Il ragazzo la raccolse. Dentro c’era un’immagine in bianco e nero: due uomini che si tenevano per mano, sorridendo davanti a un treno in partenza.
L’addio
Quando Sebastiano morì — tranquillo, nella sua poltrona — non lasciò né figli né testamento. Solo un biglietto attaccato allo specchio: “Se mi avete visto strano, era solo perché cercavo un angolo di cielo dove il mio passo potesse suonare giusto.”
"Ogni 4 dicembre qualcuno lascia un paio di scarpe" (cr. An-d Wikimedia commons)
Da allora, il suo retrobottega è diventato un piccolo spazio di ascolto. Ogni 4 dicembre, qualcuno lascia lì un paio di scarpe. Non sempre sono col tacco. Ma tutte, in qualche modo, suonano il silenzio che Sebastiano aveva imparato a far parlare.
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