L'uomo dalla firma impossibile
Jean Louis Ernest Meissonier, "Giovane uomo che scrive", museo del Louvre (Wikimedia commons)
La mano si rifiutava di scrivere il suo nome
Non riuscivo più a firmare. Semplice così. La mano arrivava in fondo al foglio, trovava lo spazio bianco, prendeva la penna, ma il nome non usciva. Veniva solo un tremore. Un segno incompiuto. Come se la mia identità si fosse sciolta nella punta del dito, o peggio, fosse rimasta bloccata da qualche parte che non comandavo più.
Non era una malattia. Era un rifiuto. Il mio stesso nome si negava.

Panorama di San Fratello, in provincia di Messina (cr. A.D. Ferrari Wikimedia commons)
“Tu non mi rappresenti più,” pareva dirmi.
E io non potevo che abbassare gli occhi.
A San Fratello mi conoscono tutti. Almeno così credono. Mi salutano per nome, mi affidano pacchi, bollette, ricordi. Ma io quel nome, dentro, non lo sento più. Mi sta addosso come un vestito prestato da un morto.

Tiziano, particolare da "Uomo con un guanto", museo del Louvre (Wikimedia commons)
La prima volta è successo in posta. Dovevo firmare un pacco per me stesso. Ho preso la penna, e niente. Solo una linea. Una curva interrotta. L’impiegata ha scherzato: “Troppo caffè?” Io ho sorriso. Ma dentro qualcosa si è spaccato. Come se il foglio mi avesse restituito il vuoto.
Sono tornato a casa, ho preso vecchie lettere, bollette, documenti.
Ho guardato quella firma che portavo da una vita. Era sempre la stessa. Stessa “G”, stessa curva, stesso orgoglio. Ma ora non sapevo più chi l’aveva fatta. Non era una firma. Era un sosia.

Esercizio di calligrafia (dalla pagina Fb Istituto Gazzola)
Ho provato a rifarla cento volte. Ma ogni volta cambiava. Una “a” tremava, la “l” spariva, la “o” si rifiutava di chiudersi. E poi niente. Solo un punto. Un punto che non voleva più essere punto di partenza.
Allora ho pensato: forse sono cambiato io. Forse quello che firmava con sicurezza è morto in silenzio, e io non me ne sono accorto.
La firma è una preghiera muta. Una dichiarazione d’esistenza. E se non riesci a farla, forse non ci sei più.
Non ho detto niente a nessuno. Ma ho cominciato a portare la penna sempre con me. Come si porta un amuleto. Ogni tanto la tiravo fuori, facevo finta di scrivere. Ma non usciva nulla. Solo scarabocchi. Come se stessi cercando di inventarmi di nuovo.

Particolare dell'abitato di San Fratello
Una sera ho provato a firmare sul vetro appannato della cucina. Ma anche lì, la mano si fermava. Come se il vetro sapesse che stavo mentendo.
Mi sono guardato allo specchio. Ho sussurrato il mio nome ad alta voce. E mi ha fatto male. Come se non fosse mio. Da allora ho cominciato a parlare con me stesso usando il “tu”.
“Tu oggi non ce la fai.”
“Tu non sei più quello.”
“Tu dove sei andato?”
A San Fratello nessuno ha notato niente. Continuano a chiamarmi. Ma ogni volta che sento il mio nome, io non mi volto. Perché non mi riconosco più nel suono.

La chiesa di Santa Maria delle Grazie a San Fratello
Ho provato a scriverlo al contrario. Nulla. Ho provato a non scriverlo affatto. Peggio. Ho provato a cambiare firma. Ma ogni tentativo era un suicidio in miniatura.
Poi ho aperto il cassetto di mio padre. Lì dentro, tra i suoi occhiali, ho trovato una carta d’identità scaduta. Con la sua firma. Era identica alla mia. E ho capito: io non firmavo più perché quella firma non era mia. Era la sua. Era un’eredità non chiesta.
Mi sono seduto. Ho preso un foglio bianco. Ho scritto solo il mio nome di battesimo. Giacomo. Nient’altro. Senza cognome, senza fronzoli. Quella è stata la prima firma vera della mia vita.

Natalia Pavlusenko, "Ritratto di Pylyp Orlyk" (Wikimedia commons)
Ora la uso solo su fogli che nessuno leggerà. Ma almeno so chi sono. Uno che ha smesso di fingere con l’inchiostro. Da quel giorno non ho più provato a firmare in pubblico. Compilo moduli, scrivo numeri, traccio linee. Ma dove c’è da mettere il nome, lascio spazio. Lascio silenzio. Lascio l’assenza.
Una volta, alla banca, ho preso la penna, l’ho appoggiata al foglio e ho detto: “Non sono sicuro di esistere”.
L’impiegato ha riso. Ma io no. Io guardavo la linea dritta davanti a me, e non riuscivo ad attraversarla. Perché attraversarla significava confermare qualcosa che non sentivo più mio.
Ho cominciato a raccogliere firme degli altri. Fogli abbandonati, buste, vecchie cartoline. Le guardavo per ore. C’erano firme eleganti, nervose, infantili, feroci. Ognuna diceva: “Io ci sono stato.” Io, invece, non sapevo dove fossi.

Gustave Caillebotte, "Ritratto di uomo che scrive nel proprio studio" (Wikimedia commons)
Poi ho capito che la mia firma era rimasta indietro, in un momento preciso. Forse l’avevo lasciata su un foglio di scuola, o su un contratto che non volevo firmare, o su una lettera d’amore che non ho mai spedito.
Allora ho ricominciato da lì. Mi sono seduto alla scrivania, ho chiuso gli occhi, ho pensato all’ultima volta in cui la mia firma mi sembrava vera. Ho visto mia madre che mi guardava scrivere su un diario. Ho rivisto il quaderno, la penna blu, il mio nome tracciato piano, senza fretta. Era infantile, ma era mio.

Calligrafo al lavoro (cr. Zephyris Wikimedia commons)
L’ho riscritto oggi, uguale. Con la stessa “g” rotonda, la “o” aperta, la “m” che non chiude. E ho sentito qualcosa muoversi nel petto. Ora firmo così. Come allora. Come quando non avevo paura di essere me. E se qualcuno mi chiede: “Ma non è la tua firma ufficiale?” Rispondo: “È quella vera.”
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