Nemmeno il prete voleva restare

Nemmeno il prete voleva restare

Edifici agricoli abbandonati in Sicilia (cr. Rosapicci Wikimedia commons)

Il paese dei calli e dello zio sparito  

A Capizzi, quando il sole nasceva, non scaldava: bruciava. Era un paese aggrappato ai sassi, con i tetti bassi e le pareti screpolate come le mani di chi ci abitava. Le stagioni non cambiavano mai davvero: c’era solo il caldo che uccideva e il freddo che spezzava. La pioggia, quando veniva, non cadeva: sputava. Il pane era scuro, duro, e non bastava mai. I bambini nascevano già con la fame in bocca. I vecchi non morivano: smettevano di parlare.

Nessuno veniva a Capizzi. Nemmeno il prete restava più di sei mesi. Il parroco precedente se n’era andato dicendo che “neanche Dio voleva ascoltare quei lamenti”. L’unico segno del tempo erano i calli: uno per ogni stagione vissuta a zappare la terra.

Turi Di Stefano, detto “il mulo”, era nato nel 1935, nel cuore più cupo della guerra. Suo padre era tornato da Gela col viso scuro e la schiena spezzata. Non parlava più. Lo avevano rimesso su un carretto pieno di morti e gli avevano detto: “Questo è tuo”. Sua madre, Concetta, si era fatta bastare una vedovanza silenziosa. Ogni mattina si alzava prima del gallo, spaccava la legna con le mani nude, e diceva solo: “Ancora vivi? Allora forza.”


Sicilia anni 20, giovani e lavoratori su un carretto (Wikimedia commons)

Turi aveva la schiena dritta, ma il viso stanco. Gli occhi scuri, affondati sotto le sopracciglia spesse, erano quelli di chi ha visto tutto prima ancora di imparare a leggere. A sei anni portava l’acqua al campo, a nove zappava con gli uomini, a undici aveva già seppellito tre amici: uno caduto da un carro, uno inghiottito da una frana, uno morto di fame. Ma non c’erano lacrime. A Capizzi si piangeva solo alla sera, in silenzio, sotto la coperta, senza che nessuno vedesse.

Il campo dove lavorava Turi era quello di un barone. Una tenuta vasta, che copriva tutta la valle, dai fichi d’India ai filari d’ulivo. Il barone non lo vedevano quasi mai. Era un uomo gonfio, con la pelle bianca e le mani lisce. Mandava avanti tutto il caporale Nino, che zoppicava e bestemmiava, e rideva mentre distribuiva le paghe tagliate a metà.

Turi non parlava mai, ma lavorava per tre. Portava la vanga in spalla come fosse un pezzo del suo corpo. Aveva imparato a non guardare il cielo - che tanto non dava niente - e a non aspettarsi nulla. Si alzava, lavorava, tornava, si lavava nel catino, mangiava un pezzo di pane e si coricava con la schiena a pezzi e la bocca chiusa.

Sua madre Concetta gli diceva: “Non parlare mai. A parlare, si muore”. E lei lo sapeva: suo fratello, lo zio Saro, era stato “preso” una sera di luglio perché aveva osato chiedere il salario intero. Non lo avevano più visto. “Se n’è andato al nord”, dicevano. Ma a Capizzi sapevano tutti cosa significava “sparito”.

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