Basta che ci sia l'acqua

Il mare di Palermo con il promontorio (crediti iosonospartaco)
Il Castello di Maredolce paradiso dell’Emiro
Se esistono luoghi con una maggiore capacità generativa di storie rispetto ad altri, a me viene da pensare subito alla Sicilia, e non solo per diritto di nascita. Potremmo rifarci alla sua deriva nel Mediterraneo, quel suo staccarsi, diventando da laguna (ce lo dicono i fossili) arcipelago; con pazienza questo embrione guarda il mare che evapora e poi, qualche milione di anni dopo, lo stesso mare erompe dalle rocce di Gibilterra e risistema gli equilibri: da un lato la Sicilia, dall’altro non l’Italia o l’Europa, ma il mondo.
Già, perché i Siciliani, interessante composto alchemico di più popoli (e non mi riferisco ai blanditi conquistatori), da sempre - in aperto contrasto con la realtà delle cose - si sono sentiti padroni del mondo, del loro mondo, s’intende.
Con rara capacità di mimesi hanno creato (e continuano a farlo) un universo il cui centro coincide con sé medesimi: non mi riferisco ad esempi tratti dalla letteratura, ma anche al più semplice venditore ambulante che ritiene il mondo incompleto se privato della sua essenza.
Lo so, siamo complicati, ma d’altronde i Sofisti ci hanno insegnato i “dissoi logoi” e noi siamo stati eccellenti allievi.
Siamo a Palermo, a vicolo del Castellaccio 3 (o 23, nemmeno il cartesiano rigore dei numeri civici qui è scontato), dove a seguire di abitazioni tenute insieme più dalla speranza che da certezze edilizie, all’improvviso si manifesta una costruzione di chiara impronta araba, il Castello di Maredolce. Il quartiere è Brancaccio, cavo di sotto per costruire il Liberty delle zone bene, nella parte superna ricco di storie e fatti, non sempre edificanti.
Gli Arabi molto amarono e frequentarono la Sicilia - e sull’essere ricambiati dubito, perché i Siciliani amano soltanto la propria “razza”, cioé famiglia -, scegliendo con cura i luoghi dove trascorrere bei momenti: acqua, però, ci doveva essere sempre l’acqua. Mare, fiume, pozza, lago che fosse. E così, perlustrando con comodo in lungo e largo la città, notarono un’ampia zona verde, non distante dal mare, già nota ai Romani che, considerata la salubrità del luogo, vi avevano costruito un complesso termale, che si giovava di piccole sorgenti naturali.
Il castello di Maredolce (crediti Davide Mauro per Wikimedia commons)
L’Emiro Giafar - un nome usurpato da Disney - lo elesse a dimora, confortato dal fatto che, volendo, si poteva giungere direttamente dal mare: lo riempì di animali e, per fare le cose in grande, fece creare un’isoletta nel mezzo del lago artificiale, arricchendola di palme e di un agrumeto.
La costruzione non conobbe sviluppo in altezza, preferendo una solida pianta squadrata, ma il vero cuore pulsante era il parco di ben 40 ettari (ridotto ora a 25), dal nome evocativo Fawwara, fonte che ribolle.
Poi, arrivarono gli altri, la solita compagnia normalizzatrice: Normanni, Svevi ed anche dei frati-cavalieri teutonici; così il sollazzo cambiò destinazione d’uso, divenendo un ospedale.
A ciò seguirono numerosi passaggi di mano, che condannavano il castello ad un destino sempre più oscuro, persino ricetto di pericolosi criminali.
Ma il Tempo e la Natura tendono all’autocrazia e così Maredolce ancora si staglia, non minaccia, non promessa, ma solo memoria e monito.
E se il visitatore, avvertito da queste parole, entra nel parco e chiude gli occhi, può avvertire ancora il fascino che viene dalle pietre.
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